Il giudice per le indagini preliminari Alfonsa Ferraro, se i giornalisti le chiedono spiegazioni sulla vicenda, fa garbatamente presente di non dover giustificarsi con la stampa. Verissimo. E così la misteriosa vicenda della richiesta di interdizione contro l'Eni per gli affari in Kazakistan continua ad essere avvolto dalle nebbie. Come è possibile che dopo più di quattordici mesi dalla richiesta del pm il giudice Ferraro non abbia ancora maturato una convinzione sufficientemente chiara sulla vicenda? E vabbè che in tribunale i giudici lamentano carichi di lavoro spaventosi, che li costringono a concentrarsi sulle urgenze - i processi con imputati detenuti, in particolar modo - e a mettere sotto il mucchio dei fascicoli gli altri procedimenti. Ma quattordici mesi sono quattordici mesi. Se le cose stessero davvero come sostiene la Procura, e consentire all'Eni di continuare a operare nel paese asiatico costituisse un rischio intollerabile, che senso avrebbe consentire a questo rischio di protrarsi così a lungo? E se, invece, la richiesta di De Pasquale fosse infondata, sarebbe giusto tenere sospesa un'azienda delle dimensioni di Eni in un limbo in cui non sa se potrà continuare a essere presente in una delle nazioni emergenti del mercato energetico globale?
Il tema è delicato, ma si può ricordare che esiste un precedente: nel 2009 lo stesso pubblico ministero chiese di bloccare, per motivi analoghi, la operatività del gruppo Eni in Nigeria. Al giudice che si occupò di quella richiesta, Mariolina Panasiti, bastarono due mesi per analizzare la domanda e respingerla. Ora di mesi ne sono passati quattordici, e ancora non si vede all'orizzonte una decisione. Così fioriscono i sospetti di chi ritiene che anche il giudice Ferraro si sia convinta dell'inammissibilità della richiesta di interdizione, ma non abbia ancora reso nota la sua decisione per dare il tempo alla procura di fare un passo indietro e evitare un'altra sconfitta pubblica.
La richiesta di interdizione riguarda tecnicamente Agip Kco, la società - interamente controllata dal gruppo di Paolo Scaroni - che è finita al centro dell'indagine su presunte tangenti versate fino al 2007 per l'appalto del giacimento petrolifero di Kashagan, per un totale di circa venti milioni di dollari.
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