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Torturato e assolto, ma mai risarcito

Da mezzo secolo Luciano Rapotez chiede invano i danni per le botte subite dagli agenti che gli fecero confessare un delitto mai commesso

Torturato e assolto, ma mai risarcito

Oggi Luciano Rapotez ha novantatré anni ma la sua vita è cambiata radicalmente cinquantasette anni fa, quella sera del 28 gennaio del 1955 quando trova sotto il portone di casa a Gorizia la polizia ad attenderlo. Aveva trentacinque anni, era un ex partigiano con moglie e figli e faceva il muratore Luciano Rapotez quando venne caricato senza spiegazioni e portato direttamente in questura. Di lì a poco l'ex combattente della Resistenza, oggi presidente dell'Anpi Friuli Venezia Giulia, fu accusato dell'uccisione, avvenuta nove anni prima vicino a Trieste, dell'orefice Giulio Trevisan, della sua fidanzata Lidia Ravasini e di una cameriera.

Novantaquattro ore senza bere, novantasette senza mangiare, centoquattro ore senza dormire e con una lampada incandescente puntata contro la faccia e poi scariche elettriche, pestaggi e bastonate. Dopo un simile trattamento l'ex partigiano finì per autoaccusarsi e firmare la confessione di un delitto da lui mai commesso. E passò anni in carcere preventivo e in isolamento fino al 30 agosto del 1957 quando venne assolto per insufficienza di prove e rimesso in libertà. Durante il processo Rapotez aveva ritrattato e raccontato delle terribili torture subite ma gli anni di carcere preventivo e l'accusa infamante di un efferato omicidio fanno terra bruciata attorno a lui, che perde moglie, figli e lavoro. La sua quindi diventa una libertà amara; lo Stato, infatti, oltre ad avergli inflitto torture e carcerazione preventiva gli nega anche l'affidamento dei figli. Rapotez emigra in Germania mentre il 2 marzo del 1961 viene prosciolto in appello con formula piena: «sono stati mostrati - si legge nella motivazione - i segni alla mano e ai fianchi, oltre a tanti altri meno visibili, per portare Rapotez e confessare un fatto mai commesso». Un'assoluzione che viene confermata dalla Cassazione nel 1962.

Da allora l'unico obiettivo dell'ex partigiano è il risarcimento: lo Stato deve pagare per i danni morali e materiali, per l'ingiusta detenzione, per la vita rovinata da una maldestra e violenta solerzia di alcuni sui funzionari che volevano trovare ad ogni costo il colpevole della strage di San Bartolomeo.

Così cinquant'anni fa Luciano Rapotez iniziò la sua battaglia per vedersi riconosciuti quei diritti costituzionali che dovrebbero far parte delle certezze per ognuno di noi. Invocando l'articolo 28 della nostra Carta: «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti in tali casi la responsabilità si estende allo Stato e agli Enti pubblici». Il 5 giugno del 1979 in giudizio davanti al Tribunale di Trieste venne citato anche il ministro degli Interni, Virginio Rognoni, per il risarcimento dei danni causati dai funzionari dello Stato. L'Avvocatura dello Stato si oppose adducendo tre motivazioni: mancanza di prove per i maltrattamenti subiti, prescrizione del diritto che Rapotez rivendica, irresponsabilità del Ministero. E la richiesta dell'ex partigiano venne rigettata avallando la tesi della difesa ma con una motivazione che lascia sconcertati: «... quand'anche fosse stata provata la commissione della tortura da parte dei funzionari di polizia, quei tali atti che avrebbero causato i lamentati danni, non avrebbero potuto imputarsi alla Pubblica Amministrazione perché non rivolti a fini istituzionali di uno Stato democratico, sebbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Rapotez venne condannato al pagamento delle spese processuali.

Ma la battaglia di Luciano Rapotez andò avanti. I giudici della Corte d'appello di Trieste, il 19 marzo del 1982, ravvisarono che i comportamenti illeciti dei poliziotti di Trieste configurano il reato di violenza privata pluriaggravata, ma il reato è considerato prescritto dal 1970 anche se le lettere inviate nel 1968 al ministro della Giustizia nel 1968 potrebbero costituire interruzione della prescrizione stessa. Così il processo di revisione venne fissato per l'ottobre del 1988 ma nel 1992 non era ancora stato celebrato, tanto che il 13 maggio 1992 la Commissione europea invitò il governo italiano a presentare entro luglio le osservazioni sul caso.

La storia di Luciano Rapotez attraversa più di trenta passaggi processuali condotti da oltre quaranta magistrati, un'iniziativa della Corte europea, lettere a presidenti della Repubblica come Saragat, Leone a Pertini nonché ai presidenti di Camera e Senato.

Il tutto per il riconoscimento di percosse e torture e dell'ingiusta detenzione ma con l'impossibilità dello Stato di indennizzare un cittadino perché, ed è questa la cosa raccapricciante, manca una lettera formale di richiesta di risarcimento del danno.
Potrebbe apparire un racconto di fantasia ma purtroppo non è così, a Luciano Rapotez oggi non resta che raccontarlo e a noi riportarlo con imbarazzo e tristezza.

Twitter:@terzigio

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