Roma - Anche la liquidità, persino quando trasmuta in evanescenza, possiede un suo peso specifico. Così Matteo Renzi incassa in quattro e quattr'otto - 121 «sì» un «no» due astenuti - il via libera all'adesione del Pd al Pse, questione tormentosa trascinatasi per decenni senza costrutto. «Tutto si può dire tranne che il dibattito non sia stato ampio», ha liquidato la faccenda Matteo, dopo un pomeriggio di discussione con un solo esponente contrariato, più che contrario: Beppe Fioroni. Cui D'Alema ha rimproverato una scarsa conoscenza del ruolo del cattolicesimo sociale nella sinistra europea e il trito e ritrito «Non voglio morire socialista». «Meglio non morire, e basta», ha tagliato corto il vecchio leader Maximo - di questi tempi assai conciliante con Renzi (s'avvicina il tempo delle fragole, cioè delle nomine).
Quel che importa è però seguire come il nuovo leader Maximo Matteo sbroglia matasse e tesse le tele. La questione del Pse? «Un punto d'arrivo e un punto di partenza», il suo slogan. «Poi anch'io mi comprerò i pop-corn per assistere all'epico scontro tra D'Alema e Fioroni sul ruolo dei cattolici nella sinistra», ha quindi chiuso, ridicolizzando in un attimo i parrucconi che ancora s'attardano in queste quisquilie ideologiche. Il punto è proprio questo: Renzi interpreta a meraviglia la liquidità dei tempi e non avverte alcun bisogno di complicarsi la vita con visioni complesse. Non applica mai ideologia semplicemente perché non ne ha alcuna. Cosa che spiega quale sarà la strategia dei prossimi mesi, e la politica dei forni che si prefigge di praticare. In questo senso, non è alieno dalla fuoriuscita dei grillini; più che alla finestra, pensa di aver messo già un piede nella loro casa e che il dissenso emerga proprio perché lui parla il loro linguaggio. Prova ne sia il cosiddetto «pizzino» scambiato l'altro giorno con Luigi Di Maio. Quell'innocente «ma voi fate sempre così?» in realtà ha pesato come macigno sull'inconcludenza di deputati e senatori M5S. Li ha ricondotti di botto ai mesi di scontrini, tetti, soprusi interni e angherie sulla Rete. Al lungo inverno del loro scontento. Ovviamente i falchi tengono serrate le fila, e la maggioranza M5S ne ha paura. Ma oggi sono in molti a sapere di poter disporre di una sponda alla Presidenza del Consiglio, sponda che conta.
Renzi pensa infatti di averne già un pugno alla Camera, mentre al Senato c'è chi dice che vorrebbe provare a utilizzare il sempre indeciso Pippo Civati e i sei senatori a lui vicini. Questo spiegherebbe lo schizofrenico modo di condurre l'opposizione interna da parte di Pippo, anche ieri in retromarcia tattica. «Smentisco categoricamente questa cretinata della cena con i grillini, argomento già usato sei mesi fa. Non pensino di cavarsela con le cene per nascondere il disagio di un terzo dei senatori M5S», si è schermito dopo le voci messe in giro dai Goebbels in erba della propaganda pentastellata. Anche sul gruppo comune da far nascere a Palazzo Madama, un forno adatto a operazioni renziane sul fronte sinistro, Civati si tira indietro: «Possono farselo da solo, saranno in quattordici, mica hanno bisogno dei miei amici». Dulcis in fundo, lo smarcamento dal sospetto di lavorare per il re di Prussia (anzi di Firenze): «No, Matteo non sostituirebbe Ncd con un Nuovo centrosinistra. A lui piacciono tutte e due le destre, sia quella di Berlusconi che quella di Alfano».
La verità è che a Renzi piacerebbe pure una sinistra amica e disponibile, capeggiata dall'ex sodale Pippo. Il problema, semmai, è un altro. Per ora difficilmente risolvibile. I Cinquestelle fuoriusciti non sono una falange unita e compatta.
Se alla Camera Alessio Tacconi dice di «sperare in Renzi come tutti gli italiani» (non è l'unico), al Senato Lorenzo Battista sembra già pronto a essere traghettato nel Pd. Gli altri prendono tempo, che è buon consigliere. L'unico di sinistra, Francesco Campanella, parla invece di una «Rifondazione» grillina, che arrivi a sei stelle. Basterebbero anche soltanto due palle.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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