Il Pd teme il Vietnam e sacrifica Monti sull’altare elettorale

Il partito fa campagna sul no al testo e cerca l'intesa per rinviare l'articolo 18 a dopo il voto

Il Pd teme il Vietnam e sacrifica Monti sull’altare elettorale

Roma - Parola d’ordine: attribuirsi almeno un primo punto (il ddl anziché il decreto) e far sentire rumore di sciabole annunciando la prossima battaglia per cambiare la riforma dell’articolo 18 in Parlamento.
Mandando anche qualche segnale bellicoso (e molto di sinistra) al troppo tecnocratico professor Monti, cui Massimo D’Alema ricorda sarcastico che «non ci sono solo i mercati, ma anche i lavoratori». E che sfida: «Ha fatto una norma molto confusa e pericolosa, e noi la correggeremo». E il governo «dovrà adeguarsi». Toni simili da Bersani: «Sono sereno sul fatto che si vorrà ragionare. In caso contrario chiudiamo il Parlamento, ma non credo che i mercati si tranquillizzerebbero». Ulteriore punzecchiatura al premier e alla sua presunta preferenza per gli investitori piuttosto che per i «lavoratori».
Non c’è dubbio: la campagna elettorale è cominciata. A sinistra, come d’altronde anche a destra dove gli uomini di Alfano si strappano (del tutto metaforicamente) i capelli tuonando contro il mancato decreto legge e annunciando sconquassi se si tocca la riforma del lavoro. D’altronde si vota la prima settimana di maggio, una tornata di amministrative che sarà assai importante per i rapporti di forza tra i vari partiti, e per il Pd la campagna sulla difesa del lavoro contro i «licenziamenti facili» è una buona bandiera da portare in piazza. Ad un patto: che nel frattempo in Parlamento non si apra la vera battaglia campale sugli emendamenti alla riforma, perché lì per il Pd potrebbero aprirsi seri guai. Tant’è che, assicurano i ben informati dall’interno del partito, ci sarebbe già una mezza intesa, ancorché informale, col governo per iniziare ad incardinare il provvedimento, ma arrivare al merito dell’articolo 18 solo dopo il voto di maggio. Conviene a Bersani ma conviene anche all’esecutivo, per non stringere un partito di maggioranza nella morsa tra Cgil e urne, rischiando di infiammare ulteriormente il clima dentro la sinistra ma anche nel Paese. Conviene meno al Pdl, che infatti spinge per accelerare l’esame parlamentare della scottante materia.
Intanto il segretario del Pd si prepara ad affrontare il primo tornante di dibattito interno, nella direzione convocata per lunedì prossimo. Dalla quale conta di uscire con una forte maggioranza sulla linea del no a questa «brutta» riforma dei licenziamenti, mettendo a tacere la fronda governista interna. Al suo fianco sono schierati Rosy Bindi, pronta a scendere in piazza con la Cgil, e il capogruppo Dario Franceschini, oltre naturalmente a D’Alema. «Così di certo quella norma non può passare», avverte duro Sergio D’Antoni. E con che voti pensa il Pd di modificarla, in Parlamento? «Non è questione di voti: c’è un clima tale nel Paese che di qui a poco tutti vorranno cambiarla. Perché anche i mercati vogliono coesione sociale, non sangue».
La minoranza interna che invece difende la bontà della riforma governativa, però, non pare intenzionata a dare battaglia. Almeno ora. Walter Veltroni critica l’immobilismo del Pd, che invece di «limitarsi a difendere lo status quo» avrebbe dovuto fare per tempo delle scelte innovative e soprattutto «avere una proposta chiara e spendibile, per non farsi trovare impreparato». Ad esempio, suggerisce, sposare la proposta Ichino, che invece è stata ferocemente avversata dall’ala laburista del Pd. Oppure, aggiunge Veltroni, scegliere il famoso «modello tedesco» sui licenziamenti. E quindi, sottolineano i bersaniani, «Veltroni viene sulle nostre posizioni: il testo del governo va cambiato, e il modello tedesco è l’alternativa». Anzi, sottolinea ironico D’Antoni, «è una delle pochissime volte che vedo Veltroni e Fassina sulla stessa linea». Insomma, il redde rationem è rinviato ancora. E forse, azzarda qualcuno, non si consumerà neppure sull’altare dell’articolo 18, ma sulla legge elettorale. «Stiamo per perdere l’ennesima occasione di riformarla», avverte Veltroni.

Il suo sospetto, condiviso anche da chi, come il vicesegretario Letta, punta al sistema tedesco (e, si dice, a ripetere la «grosse koalition» nel 2013), è che l’asse D’Alema-Bersani (via Violante) d’accordo con l’ala «dura» del Pdl (ex An in testa) stiano cercando di preservare il Porcellum (con annesse liste bloccate decise dai capibastone), per aprire la strada all’alleanza di sinistra. Con Bersani candidato premier.

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