Il poliziotto delle Dolomiti che difende la pastasciutta

Il presidente dei pastai italiani smette la divisa per dirigere a Predazzo l'azienda di famiglia: nella Grande guerra sfamava i soldati austriaci

Il poliziotto delle Dolomiti che difende la pastasciutta

Leggi «pasta» e subito il pensiero corre alle capitali degli spaghetti: Gragnano, in Campania, patria della Garofalo e di altri 13 stabilimenti, dove fra i 30.000 residenti è difficile incontrarne uno che non abbia avuto qualcosa a che fare con l'industria dei maccaroni, fiorente nella zona fin dal Settecento; Parma, in Emilia, sede della Barilla, leader in Italia e nel mondo; Fara San Martino, in Abruzzo, sede della De Cecco, della Delverde e della Cocco; Imperia, in Liguria, sede della Agnesi; Riese Pio X, in Veneto, sede della Zara, secondo produttore nazionale. Tutte regioni bagnate dal mare. Ma che c'entrano i fusilli con Predazzo, in Trentino, dove il termometro in questi giorni segna meno 11 e la neve al suolo raggiunge i 70 centimetri? E le linguine con la Val di Fiemme? E i rigatoni col gruppo del Latemar? E i paccheri con la Catena del Lagorai? E le pennette col Passo Rolle?
Eppure è qui, nel cuore delle Dolomiti, che lavora Riccardo Felicetti, 47 anni, presidente dei pastai italiani aderenti all'associazione di categoria della Confindustria, la quale raggruppa il 75% delle imprese di un settore che produce 3,4 milioni di tonnellate di pasta l'anno (pari a 40 miliardi di piatti) e vale 4,5 miliardi di fatturato, ma che si tira anche appresso un indotto e un export fatti di olio, burro, parmigiano reggiano, grana padano, pecorino, conserva di pomodoro, sughi pronti, spezie, insomma di tutto quel made in Italy che serve a condire uno dei cibi di culto in ogni angolo della terra.
«Da pastificio più a sud dell'Austria ci siamo ritrovati a essere quello più a nord dell'Italia, senza mai muoverci da qui», racconta Felicetti per condensare una storia di famiglia cominciata nel 1908, quando il bisnonno Valentino, classe 1864, registrò l'opificio a Cavalese, «con un atto redatto in lingua italiana e poi recepito in tedesco a Salisburgo, perché l'impero austroungarico rispettava le minoranze etniche». Il pastificio Felicetti non è solo quello più a nord, ma anche quello più ad alta quota del Belpaese, 1.026 metri, e dev'essere per questa ulteriore benemerenza che Massimo Menna, proprietario del pastificio Garofalo di Gragnano, ubicato 956 metri più in basso sul livello del mare, ha ceduto volentieri lo scettro della categoria al suo collega trentino.
Solo che Riccardo Felicetti non aveva nessuna intenzione di dedicarsi a bucatini e bavette. Il mestiere per cui si sentiva portato era tutt'altro: poliziotto. Col suo fisico atletico - 80 chili di muscoli distribuiti su 182 centimetri di altezza - è stato per due volte sul podio ai campionati italiani allievi nei 110 metri ostacoli e dal 1984 al 1986 uno dei marcantoni più promettenti del Centro addestramento alpino di Moena, quello degli agenti che con sci e motoslitte garantiscono la sicurezza sulle cime innevate dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia. Ma la sua carriera nella Polizia di Stato venne interrotta da una telefonata del padre Valentino, 77 anni, che nella frazione di Bellamonte, con incomparabile vista sulle Pale di San Martino, fu vicino di casa e buon amico di Aldo Moro quando lo statista dc ci veniva in vacanza d'estate con i propri cari: «Torna qua che c'è da fare la pasta».
E così s'è ritrovato dalla sera alla mattina, obtorto collo, amministratore delegato della Felicetti, ovviamente situata in via Felicetti e da oltre un secolo governata dagli eredi maschi di casa Felicetti, finora 15, giunti con lui alla quarta generazione di pastai. Il che comporta un sacrificio aggiuntivo di 180 chilometri al giorno sul tragitto Merano-Predazzo-Merano («due ore e mezzo di camera iperbarica fra andata e ritorno, molto utili per pensare»), visto che Riccardo Felicetti ha sposato Deborah, altoatesina di madrelingua tedesca, imprenditrice del ramo cosmetici in quello che fu per 430 anni il capoluogo del Tirolo, e lì ha messo su casa e lì ha deciso che i figli Luca e Mattia, 12 e 6 anni, crescano nella cultura mitteleuropea del bilinguismo. In attesa che arrivi, inesorabile, il loro turno nell'azienda di famiglia, che lavora 24 ore su 24, sforna 60 tonnellate di pasta al giorno in 100 diversi formati, esporta in 40 Paesi e fattura 28 milioni di euro l'anno.
Come saltò in mente a suo bisnonno di aprire un pastificio fra le cime dolomitiche?
«Storia lunga. Valentino Felicetti cominciò nell'edilizia. Costruiva ponti e gallerie per l'impero asburgico in Stiria e Carinzia e contribuì alla realizzazione dell'acquedotto di Vienna alla fine del XIX secolo. Stava via di casa per molto tempo. Ogni volta che tornava metteva in cantiere un figlio. Alla nascita del quarto decise di fermarsi a Predazzo, per cui dovette trovarsi un nuovo lavoro. Così rilevò un opificio che produceva casse di legno e zolfanelli e che bruciava la segatura per alimentare le camere di essiccazione d'un piccolo pastificio annesso. Mio bisnonno decise di chiudere la segheria e di buttarsi sulla pasta. Una scelta che fu premiata durante la Grande guerra, quando diventò il fornitore ufficiale delle truppe austriache, rimaste attestate fino alla disfatta di Caporetto lungo il fronte del vicino Lagorai».
Ma che ora, a leggere Newsweek, rischia di ridurvi in bolletta: l'Università di Stanford ha preconizzato la fine della pasta a causa del riscaldamento globale terrestre.
«In passato hanno detto la stessa cosa per le vigne e il vino, eppure continuiamo a bere molto, e anche meglio, rispetto al passato. La verità è che la fola del riscaldamento globale serve ai biotecnologi per giustificare gli organismi geneticamente modificati».
Non la seguo.
«Ci fanno credere che se la temperatura sale e l'acqua scarseggia, s'impone la necessità di creare Ogm resistenti al calore e alla siccità. Proprio quelli che noi pastai vediamo come il fumo negli occhi. Per una questione di libertà. Gli agricoltori non devono comprare dalle multinazionali le sementi brevettate».
Quanta pasta si mangia in Italia?
«Siamo a 27 chili pro capite l'anno, includendo nella statistica lattanti e ultracentenari. Ne esportiamo il 54%».
I formati più venduti?
«Spaghetti, fusilli e penne».
Perché nel Belpaese si contano oltre 100 tipi di pasta e ben 76 modi diversi di chiedere un caffè al bar?
«Provi a chiedere un caffè in Austria. La risposta sarà: “Come lo vuole?”. Tutto il mondo è Belpaese, da questo punto di vista. Negli Stati Uniti ho provato a raccapezzarmi fra i vari tipi di pane tostato, ma non ci sono ancora riuscito».
Quali sono i Paesi che mangiano più pasta, Italia a parte?
«Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. Da soli assorbono oltre il 60% dell'export italiano. E questo spiega anche perché il 70% della pasta Felicetti finisca all'estero. I nuovi clienti si stupiscono: “Come mai lei non ha l'accento napoletano?”. Ora si sta aprendo il mercato cinese».
E dire che gli spaghetti vengono da là.
«Una leggenda. Quando Marco Polo arrivò alla corte di Kublai Khan, in Sicilia già da secoli s'impastava una miscela di grani duri e acqua, facile da essiccare, conservare e trasportare, sempre pronta per il consumo. Gli spaghetti non possono che essere nati dove da sempre si coltiva il frumento, quindi nel bacino del Mediterraneo».
Quanto conta l'acqua nella pasta?
«Quanto stendere ad asciugare un panno e ritirarlo bianco anziché grigio. L'acqua, se impura, modifica il sapore del grano. Grazie al cielo noi possiamo usare quella che scende da una delle cinque sorgenti del Latemar».
Si coltiva il grano in Trentino?
«Se ne coltivava, poco, prima dell'alluvione del 1882. Tant'è vero che un proverbio recita: “Predazzani dal ciaciaraménto, poca segale e manco formento”, predazzani dal chiacchiericcio facile, ma poveri di cereali. Il formento è il grano saraceno. Ora lo stiamo riseminando in Trentino e in Alto Adige per favorire la biodiversità».
Ma questa benedetta pasta ingrassa davvero così tanto?
«Non ingrassa affatto. Così come il vino non ubriaca. Una porzione di 80 grammi apporta al massimo 280-290 calorie, 268 se è integrale. Il guaio è che siamo gli unici al mondo a mangiare gli spaghetti col pane. Io per primo».
Con gli 80 grammi che Girolamo Sirchia, all'epoca ministro della Salute, voleva imporci per legge, molti neanche cominciano. Io per primo.
«Mi associo. Sono contrario all'alimentazione per decreto. È nociva. Lo dimostrano gli americani, che hanno il record mondiale dell'obesità nonostante i rigidissimi standard della Food and drug administration. Fino a due anni fa, per poter vendere la pasta negli Stati Uniti, la Fda ci imponeva di addizionarla con niacina, riboflavina e tiamina, sostanze che aiutano l'organismo a scomporre proteine, grassi e carboidrati. Ora l'aggiunta di vitamine ed enzimi è diventata facoltativa. Si sono resi conto che non serviva a un tubo».
Sta di fatto, ammoniva Sirchia, che un italiano consuma il doppio di pasta rispetto a 25 anni fa.
«Non è vero. Il consumo è invariato, con aumenti sensibili all'estero».
Lei quanta ne mangia?
«Mai pesata. Vado a occhio, anzi a pugno. Sono un disgraziato».
E con che cosa la condisce?
«Burro e parmigiano. Prediligo le penne lisce e gli spaghettoni da 2,3 millimetri di diametro. Da andare giù di testa con burro e alici».
Ho notato che con i formati piccoli si mangia la metà avendo la sensazione che la razione di pasta sia doppia. Come mai?
«Ma davvero? Dovrò fare delle prove. La pasta cotta aumenta del 120-150% il suo volume. Sarà un effetto ottico».
Si potrebbero produrre gli spaghetti dietetici?
«Sì, come il vino senza alcol. Sarebbe ancora vino? Quando negli Usa impazzava la dieta Atkins e tutti i cibi dovevano essere low carb, cioè a basso contenuto di carboidrati, mi sono rifiutato di piegarmi al diktat. Non vendevo quasi più nulla. Ma il sapore dei nostri spaghetti era salvo».
Com'è iniziata la moda della costosa pasta di kamut?
«Kamut è solo il nome commerciale di un grano antico, il Khorasan, che si coltivava nella Mezzaluna Fertile, cioè dalla Mesopotamia all'Egitto. Una società americana l'ha piantato nelle pianure del Montana e dell'Alberta, rilanciandolo con un'astuta operazione di marketing. Ma il Khorasan oggi cresce anche in Basilicata, Puglia e Umbria».
Dia un'occhiata a queste due mail, identiche. Mi sono arrivate da un dentista di Teramo e da un chirurgo italiano che lavora al London independent hospital, nella capitale britannica. Sostengono che un notissimo produttore italiano di pasta userebbe «grano con tassi di micotossine altissimo», cioè ammuffito, e che «la Ue nel 2006 ha alzato con un colpo di mano i livelli accettati di micotossine presenti nel grano duro».
«Una bufala che circola da mesi per posta elettronica, come le vecchie catene di Sant'Antonio. Dieci professionisti di altissimo livello avrebbero preteso una mia presa di posizione al riguardo. Eccola: questa mail, falsa dalla prima all'ultima riga, puzza molto da sindacato degli agricoltori. E qui mi fermo».
Però il compianto Gino Girolomoni, pastaio noto come Alce nero, mi spiegò che si combinano un sacco di pastrocchi per produrre 80 quintali di grano per ettaro, anziché 20. Col risultato che il ministero della Sanità ha dovuto via via autorizzare ben 350 additivi.
«È vero, ma c'entra più la genetica che la chimica. Il grano Svevo rende 60 quintali per ettaro nella Pianura padana e solo 30 ad Altamura, in Puglia. Dipende dal terreno, non dall'uomo».
Girolomoni sosteneva che la pasta si dovrebbe essiccare per almeno 24 ore. Pochi di voi lo fanno.
«Mi ricorda l'invidia del pene: non è che dobbiamo gareggiare a chi ce l'ha più lungo. La pasta si può essiccare da 3 a 60 ore. L'importante è che sia buona. Prima assaggia e poi decidi».


Il suo bilinguismo non ha vacillato quando Der Spiegel nel 1977 mise in copertina un piatto di spaghetti conditi con una P38?
«All'epoca ero un bambino di 12 anni, non molto bilingue. Quell'immagine ha fatto molto male all'Italia. Purtroppo i tedeschi ci considerano ancora così: inaffidabili».
(632. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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