Quei pm ipocriti sul profitto mettono Taranto alla fame

L’Ilva rispetta gli accordi ma i giudici si scagliano contro le scelte imprenditoriali. È il "benecomunismo" che piace alla sinistra: mandare a casa migliaia di operai

Quei pm ipocriti sul profitto mettono Taranto alla fame

Perché un magistrato che presu­mo ineccepibile professional­mente si sente in dovere di attac­care «la logica del profitto» e il «cinismo» degli industriali dell’acciaio in un’ordinanza di custodia cautelare e di chiusura di una fabbrica? Perché adopera quelle formule ideologiche senza senso e non si attiene a un linguaggio secco, di fatti e problemi, usando del suo potere e dove­re giudiziario ma senza sconfinare nel ro­manzo fantastico di idee sghembe che ci portiamo appresso da un paio di secoli? Il magistrato sa che il comunismo reale ha in­quinato il pianeta, senza e contro la logica del profitto, in modi abnormi e infinita­mente superiori a quelli del mondo indu­striale capitalistico? Sa che la caratteristi­ca della grande e terribile crescita e prospe­rità della Cina contemporanea, dove la lo­gica del profitto si espande senza remore ma sotto l’occhiuto controllo del partito unico degli eredi di Deng Hsiao Ping, è pre­cisamente quella di coprire il cielo con l’opaco residuato della produzione,con le scorie volatilizzate e galleggianti sopra Pe­ch­ino e Shanghai e le grandi province indu­striose dove l’Oriente è rosso? Sa che que­sto patto per miliardi di uomini riguarda l’uscita dalla miseria?
La storia dell’Ilva di Taranto è sconvol­gente. Migliaia di posti di lavoro in sospe­so, paura lungo tutta la catena dell’indot­to, fino a Genova. Feroce
delegittimazione di impren­ditori agli arresti domiciliari, la solita custodia preventiva che è erogazione di pena, condanna sociale prima del processo.

Sin­dacati contestati, molti dipen­de­nti che improvvisamente e di­speratamente riscoprono il la­to patriarcale e inevitabilmen­te retrogrado del rapporto con i proprietari dell’azienda, visti come unico e finale appiglio contro la discesa nella disoccu­pazione e la cancellazione del futuro di vita. I media rilancia­no e inevitabilmente deforma­no notizie che vengono dal mondo dell’accertamento pre­suntivamente scientifico sul grado effettivo di pericolo che la produzione dell’acciaio com­porta, queste notizie sono im­pressionanti, allarmanti, parla­no di piombo nelle urine in ec­cesso per una fetta della popola­zione, di una catena di decessi che fa paura, bisogna fare tutto e subito, non bastano accordi di disinquinamento ambienta­le per molti milioni di euro e controlli pubblici sorvegliati dagli stessi sindacati, occorre chiudere, fermare lo scempio letale. Fermare la mano degli as­sassini, questo bisogna, altro che accordi quadro per gover­nare la realtà, altro che perizie truccate, è la perizia legale di ul­tima istanza che deciderà il de­stino della comunità.
Anche il fumo uccide, è scrit­to nei pacchetti di sigarette, con soluzioni sempre più maca­bre di pubblicità del futuro pro­babile, morte e sofferenza per chi compra e accende la bion­da. Anche i grassi alimentari uc­cidono, anche gli zuccheri, an­che le bistecche. Non parliamo poi delle automobili e dei mez­zi di trasporto urbano, gli indi­catori sono cambiati, il grado di nocività dei tubi di scappamen­to che sciolgono veleni nel­l’aria lo si rileva con nuove tec­niche, il destino è la paralisi o
l’idolo della biciclet­ta.

Il principio di pre­cauzione è incauto. Questa è la verità. È la forma temeraria che assume l’orienta­mento scientifico di Stato nella presunzio­ne proibizionistica di poter controllare la società, i gruppi, le persone, in nome di una superiore co­scienza del vero, del buono, dell’utile col­lettivo.
È il cosiddetto «be­n ecomunismo», l’ideologia del ceto medio di sinistra che si vuole colto e rifles­sivo (giornalisti, in­tellettuali, esperti e magistrati ne sono il nucleo combatten­te): con quella formu­la allusiva ai beni co­muni
vogliono rimuovere ciò che probabilmente considera­no la propria colpa collettiva, l’indulgenza storica verso il «malocomunismo». Il princi­pio di precauzione è giusto in sé, ma si rappresenta e funzio­na come una nuova forma di proibizionismo, una folle onda­ta neopuritana che obbliga, esclude, punisce, vieta, condi­ziona, ricatta ma non salva. O vogliamo pensare che si possa mettere a dieta il mondo intero, sradicare tradizioni e usi secola­ri, immobilizzare sviluppo e li­bertà di movimento inchiodan­do il cittadino, in nome delle ve­rità della scienza, a confinarsi nel tinello di casa a fare la rac­colta differenziata dei rifiuti?

Esagero? Sì, esagero. Sono un fissato trasgressivo? Sì, lo so­no.

Ma vi garantisco che non mi diverto, e quando penso a una immensa comunità di indu­stria e di lavoro come l’Ilva di Taranto, in cui per un momen­to che si annuncia esiziale inve­ce della razionalità dominano dati discutibili, idee discutibi­li, provvedimenti discutibili, e tutto in nome dell’indiscutibili­tà del principio di precauzio­ne, penso di non essere il solo a esagerare.

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