Tutto rinviato a Palazzo Madama: della riforma del Senato, che martedì sera è stata a un passo dal precipitare, si riparlerà dopo le elezioni europee.
Il premier Renzi aveva confidato troppo nell'ottimismo della volontà nell'aupicare un primo via libera (anche solo in Commissione) prima del 25 maggio. Nelle scorse ore ha potuto constatare con mano quanto sia forte - ormai anche tra i Cinque Stelle - l'istinto di sopravvivenza di chi siede tra i velluti rossi di Palazzo Madama e non vuole che la baracca sia chiusa. E quanto sia diffusa la tentazione di fargli uno sgambetto in piena campagna elettorale, affossando la sua riforma. «Se avessimo deciso di andare avanti - spiega un esponente renziano - ogni voto su ogni emendamento sarebbe diventata l'occasione per uno show elettorale o un titolo di giornale». Tutto rinviato, dunque. Anche perché martedì sera Renzi ha sollecitato e alla fine ottenuto che Silvio Berlusconi tenesse fede al patto del Nazareno e votasse il testo (usando anche la minaccia di dimissioni e quella, messa nero su bianco da Roberto Giachetti, di voto anticipato) ma ha anche pagato un prezzo: il Cavaliere e i suoi non hanno mancato di sottolineare in tutti i modi che senza di loro le riforme non sono possibili, e come la maggioranza e lo stesso Pd siano a rischio sfarinamento. Al Senato basta qualcuno che abbia conti aperti col premier (vedi il mancato ministro Mario Mauro o il pd Corradino Mineo) per mandare il governo in minoranza. Un'immagine, quella dell'abbraccio necessario ma mortale con il Cav, che non è l'ideale per la propaganda elettorale del Pd.
Di qui al 25 maggio il premier (accantonata la riforma del Senato e portato a casa con la fiducia il decreto Poletti) ha intenzione di dedicarsi anima e corpo alla campagna elettorale. Ben sapendo che dal risultato delle Europee dipende praticamente tutto, comprese le riforme e il destino della legislatura. Sarà il verdetto delle urne, come dice un dirigente a lui vicino, a determinare «se la pistola del voto anticipato che martedì Renzi ha usato con Berlusconi, pur sapendola mezza scarica, diventerà invece un'arma letale». Tradotto: se il Pd andrà molto bene - sopra il 30%, primo partito italiano ad una decina di punti da Forza Italia - potrà usare la sua forza per imporre al centrodestra il mantenimento del «patto», e accelerare l'iter delle riforme, Italicum compreso. I numerosi dissidenti interni al Pd verrebbero messi a tacere grazie all'asse con Fi, che a sua volta potrebbe essere interessata a far passare alcune modifiche finora chieste solo dal Pd (innalzamento della soglia del ballottaggio al 40%, utile ad impedire al Pd di vincere al primo turno; abbassamento al 4% della soglia per i partiti minori, che agevolerebbe l'alleanza tra Fi e Ncd). Se invece il risultato fosse una doccia fredda, per Renzi si aprirebbe uno «scenario Prodi», con un governo paralizzato dai numeri del Senato e Berlusconi e Grillo a fare il bello e cattivo tempo dall'opposizione. Ieri lo ha ammesso anche Graziano Delrio: «Se alle Europee il Pd fosse al 25% e Ncd non superasse il quorum, questa alleanza non sarebbe certamente un buon viatico per un governo che dura a lungo».
I sondaggi per ora rassicurano il premier, con un Pd saldamente sopra il 30%. Ma l'avanzata di M5S preoccupa. E ieri Nichi Vendola, reduce da un tour elettorale, ha avvertito alcuni renziani: «Attenti che in Emilia rischiate lo smottamento verso Grillo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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