Il metronomo è implacabile. Due minuti a testa. I giovani dell'Aquila e i vecchi marpioni di scuola democristiana. Si alternano in quaranta sul palco frenetico del Palamontepaschi, gremito all'inverosimile. Sono arrivati da tutta Italia, con i pullman, come turisti del fegato. Quattromila, cinquemila, seimila: i conteggi sono difficili. Certo, rispetto al giorno precedente sono aumentati di numero, anche se sono meno degli undicimila accreditati dagli organizzatori, un tantino megalomani, alla vigilia. E però fa impressione veder sbucare sotto i riflettori della cronaca quel popolo dimenticato e smarrito che venera Gianpiero Samorì, l'avvocato di Modena che due mesi fa nessuno sapeva chi fosse. E invece il Mir, il movimento dei moderati italiani in rivoluzione, non pone limiti alle proprie ambizioni: gli iscritti, dal Lazio alla Sicilia passando per l'Emilia, sono più di centomila. E i numeri, pur nella guerra delle cifre, sono da prima pagina: la forza d'urto, almeno dal punto di vista quantitativo, è paragonabile a quella messa in campo da Luca di Montezemolo.
Hanno le idee chiare i moderati. E saranno pure rivoluzionari in giacca e cravatta, ma sono anzitutto incavolati neri, solito eufemismo pudico, con il governo Monti, con il fisco che tartassa gli ultimi e anche i penultimi, con la sanità che non funziona e con tutto il resto. Parla Stefania Craxi e il Palamontepaschi diventa una bolgia: fischi, grida, gente che si alza e ne va mentre risuona un urlo: «Sei il passato».
Poi tocca a lui e il clima si capovolge. Standing ovation. Bandiere. Grappoli di foto. Si può ironizzare su Samorì, controfigura presunta, a sentire i giornali, di Verdini, di Dell'Utri o non si sa bene chi, ma il palazzetto è un ribollire di passioni, sentimenti, speranze. Ritorna lo spirito del '94, naturalmente diluito nella rabbia e nella frustrazione maturate fra le promesse non mantenute e le riforme mancate. Ripetono tutti lo stesso ritornello: «Avevamo deciso di non andare più a votare, la politica ci aveva disgustato, poi è arrivato lui e ci abbiamo ripensato». Si riparte dal Pdl, o come si chiamerà, ma è chiaro che non potrà più essere quello di prima. La vecchia nomenklatura è pregata di andare a casa. E pure di corsa.
Lui sale sul palco e li accontenta. «Berlusconi - attacca Samorì - ha commesso un grave errore: ha nominato i caporali generali e i generali, che in realtà erano e rimangono caporali, come prima cosa hanno bloccato il programma». Il leader del Mir deve fermarsi perché il Palamontepaschi rischia di venire giù per gli applausi. Ma lui rincara la dose: «La vecchia classe dirigente del partito deve capire che questo è il momento per uscire di scena». Inutile chiedersi di quale formazione stia parlando: «Basta. Basta con i Gasparri, basta con i La Russa. Basta con i Cicchitto». E basta pure con i Giovanardi, «che pure sul piano personale è un amico». Non è quello il punto. È che dopo vent'anni di singhiozzi e di passi del gambero è l'ora di voltare pagina. Samorì vuole scalare il Pdl e vincere le primarie: «Io non farò come loro. Io attuerò il mio programma, altrimenti, dopo sessanta giorni, chiederò che si torni a votare».
Certo, è facile predicare dalle terme di Chianciano. Roma e il Palazzo, da qui, sembrano lontani. Ma questa è la narrazione, per usare un vocabolo caro a Nichi Vendola. Altrimenti è meglio chiudere il libro e rassegnarsi all'egemonia della sinistra. O al dilagare di Grillo. Nel naufragio generale, paradossalmente, sembra salvarsi solo Berlusconi: Samorì lo cita e subito i moderati, esagitati che più non si può, si scatenano, fra sogni e nostalgie. Lo spirito delle origini proiettato nel 2012, fra dubbi e tormenti. Professionisti. Artigiani. Piccoli imprenditori. Consiglieri provinciali e sindaci dell'Italia profonda.
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