Se il bon ton lo decidono i giudici

Se il bon ton lo decidono i giudici

Se prendiamo per buona la massima di Benjamin Disraeli «quando gli uomini sono puri, le leggi sono superflue», l'unica conclusione possibile è che gli italiani sono sozzi, luridi e turpi fino al midollo. Perché per metterli in riga le leggi non bastano. Servono sentenze, giurisprudenze e una Cassazione sempre più spesso chiamata ad occuparsi di inciviltà, turpiloquio e vaniloquio. Lo Stato etico è finito, un esodato del Novecento. Il Terzo millennio sarà nelle mani (e nelle sentenze) del Tribunale della Maleducazione.
L'ultimo caso si è aperto in zona pubica. Dire «non hai le palle» a chiunque - flipper guasti esclusi - costituisce reato: ingiuria lesiva delle virtù del genere maschile. Ma la scala di gravità degli insulti è lunga, ripida e soprattutto a chiocciola. Le involuzioni tra gradi di giudizio e ricorsi sono infinite, i casi talvolta esilaranti. E la macchina della giustizia, sempre più simile a una vecchia zia fissata con le buone maniere, si accartoccia su inutili procedimenti lunghi anni che ne paralizzano l'attività.

AMORE LITIGARELLO

Accade così che «puttana» valga un reato, anche se rivolto a una professionista («c'è modo e modo», direbbe Abatantuono rivolto alla bella Vassilissa in Mediterraneo); mentre «criminale assassino» urlato al marito violento è lecito pure in assenza di omicidio.

RAGION POLITICA

«Buffone» gridato a Berlusconi vale al massimo una menzione d'onore, invece «cretino» detto tra consiglieri comunali è reato perché «sottende una concezione degradante del potere pubblico» E ancora: «Azzeccagarbugli» riferito al sindaco è un'ingiuria che nemmeno due capponi in dono possono emendare, mentre «razzista» detto a un militante di Forza Nuova è sacrosanto, ché «il razzismo è connaturato all'ideologia di estrema destra». Al contrario, l'accusa di essere «ladro e imbroglione» mossa da un professore a un preside non è reato «se detto nell'esercizio delle funzioni sindacali». Siamo alla Rsu degli insulti.

PARI OPPORTUNITÀ

«Frocio» per il Tar non è reato, per la Cassazione sì, perché comunica «derisione e scherno». Ma è reato pure rivelare l'omosessualità altrui senza deriderlo né schernirlo, quindi per sicurezza è meglio non toccare proprio l'argomento. «Sporco negro» è reato, anche se forse per arrivarci non serviva una Corte, mentre a sorpresa è «discriminatorio» affermare che «sarebbe preferibile una gestione maschile» di un ente.

MINACCE VAGANTI

Capitolo divertente quello sulle minacce vere o presunte. «Lei non sa chi sono io» è reato, perché «intimidisce e limita la libertà psichica». Proprio come il «ti boccio» detto dal professore allo studente, in cui si ingenera «forte timore che lede la libertà morale».

SIAMO UOMINI O CAPI?

Sul lavoro, poi, le differenze sono profonde. Dire «pazzo» al superiore non è reato, anzi è «critica costruttiva»; così come per un «vaffanculo» non si è passibili di licenziamento, dato che «non compromette il rapporto fiduciario con l'azienda»; al contrario, apostrofare con «rompiscatole», «stronzo» o «non capisci un cazzo» un sottoposto è reato, in virtù della «continenza espressiva» a cui sono tenute le gerarchie più alte.

GALATEO DI STATO

Spesso, però, anche la cafonaggine diventa materia di legulei e magistrati. Scrollare le briciole della tovaglia dal terrazzo non è reato, mentre un condizionatore rumoroso diventa oggetto di reato solo se disturba tutti i condomini. Se qualcuno non si lamenta, non è più reato.

Fare pipì in pubblico è reato «anche se i genitali non sono visibili o se la minzione avviene in ombra», così come grattarsi i suddetti davanti a terzi, azione «contraria alla decenza».
Intasare i tribunali di queste cause, invece, è contrario al buonsenso. Ma una sentenza che lo dica, purtroppo, ancora non c'è.

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