Senato, il premier piega il Pd con la minaccia dell'addio

Prima con i senatori, poi in tv a Porta a Porta. Renzi agita le dimissioni in caso di stop alla riforma e incassa il via libera. L'unica concessione sui tempi: ok entro il 10 giugno

Senato, il premier piega il Pd con la minaccia dell'addio

Roma - Lo dice la mattina ai senatori del Pd: «Se non volete fare le riforme, trovatevi un altro perché io non ci sto»; lo ripete la sera agli italiani dagli schermi di Porta a Porta: «Se posso fare le cose che vanno fatte le faccio, se hanno bisogno di qualcuno che nasconde le cose («abbuia», dice lui attingendo al fiorentino), prendano un altro», perché «non resto attaccato alla sedia a tutti costi». Chi si aspettava un Matteo Renzi pronto ad andare a Canossa e a cedere alle pressioni di chi – anche nel suo partito – puntava a diluire fino a dosi omeopatiche il depotenziamento del Senato, ieri è stato deluso: all'assemblea del gruppo Pd, riunita di buon mattino a Palazzo Madama, il premier ha ribadito che dal «paletto» principale, la non elezione diretta dei senatori, non ha intenzione di recedere. Anche perché altrimenti si finirebbe per reintrodurre surrettiziamente quel che si vuole eliminare, ossia il bicameralismo perfetto che costringe a continui tira e molla tra Camera e Senato.

I futuri senatori, ha dunque spiegato Renzi, devono essere «indicati» dai consigli regionali, con modalità che potrebbero essere scelte da ogni Regione, visto che ognuna si è fatta il suo sistema elettorale. Un pasticcio, ma soprattutto di un modo per prendere tempo e ricompattare il gruppo, evitando che la riforma risenta dello scontro elettorale. E ieri la possente fronda interna al Pd si è sciolta come neve al sole: il capofila dei difensori del Senato, Vannino Chiti (che secondo i renziani è stato in queste settimane l'«ariete» usato dai bersaniani per ostacolare il premier) se ne è stato zitto in assemblea e poi ha parlato di «avvicinamento» delle posizioni, i suoi seguaci hanno in buona parte ingranato la retromarcia, persino l'ex Rai Corradino Mineo assicura che «Renzi ha fatto un bellissimo discorso». Secondo il capogruppo Zanda, «il 95% dei senatori ci sta». E il «giovane turco» Stefano Esposito regala al premier una spilla-ricordo con scritto «sono un tacchino felice», ossia un senatore contento di abolire il Senato elettivo.

D'altronde anche Renzi ha dovuto ingoiare qualche compromesso, fa presente: «Io avrei voluto più sindaci e meno consiglieri regionali nel nuovo Senato, perché nell'Italia di oggi i sindaci sono molto più rappresentativi. Ma siccome non sono un pasdaran, e non si fa la riforma che piace a me, alla fine saranno più consiglieri regionali». Per non parlare dei tempi: «Io volevo che si votasse in aula il 25 maggio. Mi hanno chiesto 15 giorni in più, e sia: l'importante è arrivare alla fine e non cercare l'ennesimo rinvio per non far niente». Ma per il 10 giugno la prima lettura nell'aula di Palazzo Madama dovrà essere completata. Nel frattempo la commissione andrà avanti, prima con le audizioni (verrà persino offerto un siparietto ai «professoroni» Rodotà e Zagrebelski, per farli contenti) e poi con i voti.

Ma è la campagna elettorale ora la prima preoccupazione del Pd: «In giro per l'Italia i nostri ci dicono che non c'è mai stato un potenziale di consenso così elevato, perché la popolarità di Renzi e del suo governo è altissima. Il problema è che non si traduce automaticamente in voti al Pd», spiega Matteo Orfini. E Renzi assicura di non sottovalutare i «fuochi d'artificio quotidiani di Grillo e Berlusconi». Il premier sta riflettendo su come impegnarsi direttamente in campagna elettorale.

Ma nel frattempo va avanti con la sua agenda di governo: oggi presenterà la riforma della Pubblica Amministrazione (anche se i provvedimenti arriveranno più tardi): «La cosa più difficile che possiamo fare – dice - è cambiare la pubblica amministrazione e lì non ci basta nemmeno la Nasa, forse servono i Marines».

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