Servono veri Campus, non lauree brevi

Servono veri Campus, non lauree brevi

di Giorgio Israel

Ecco una nuova classifica internazionale delle università da cui l’Italia esce solennemente bastonata. Di fronte a queste graduatorie si possono fare due ordini di considerazioni. La prima è di non darvi troppo peso. In passate occasioni, il confronto tra graduatorie diverse ha mostrato che la scelta dei parametri può far salire o scendere drasticamente di posizione un’università.
È platealmente evidente che la scelta dei parametri spinge le università di area angloamericana nelle prime posizioni. Ad esempio, se un parametro è il numero di citazioni delle pubblicazioni scientifiche, poiché la stima è fatta da società private americane che oltretutto rilevano le citazioni dalle riviste da esse stesse accreditate, e in lingua inglese, è come se si facesse una gara di corsa offrendo all’avversario metà della pista di vantaggio. I confronti dovrebbero essere fatti sul merito, sulla qualità e qui la scarsa attendibilità delle classifiche risulta dal confronto con fatti evidenti e arcinoti. È credibile che un’università piena di talenti scientifici come la parigina «Pierre et Marie Curie» figuri dietro università americane di second’ordine, la turca Middle East Technical University e l’università di Taiwan? E si potrebbe continuare con esempi clamorosi, come la sparizione della Spagna.
I QS World University Rankings del 2010 indicavano una netta rimonta delle università europee e classifiche ben diverse, che ponevano la «Pierre et Marie Curie» molto al di sopra della Sorbona, al contrario di quanto accade in questa classifica; anche se pure in quel caso la dominanza anglosassone era così forte da vedere Bologna (la «migliore» università italiana) schiacciata da Cape Town. In verità, sarebbe meglio disinteressarsi di queste classifiche e occuparsi seriamente di come migliorare la qualità delle nostre università.
Tuttavia, se si chiedesse cosa fare per entrare in buona posizione nelle classifiche, la risposta sarebbe semplice. Fare una robustissima iniezione di denaro e una programmazione urbanistica che trasformi le università italiane in campus accoglienti, eliminando l’indecente dispersione territoriale in edifici frammentati che impone allo studente di correre di qua e di là nel traffico della città. Campus dotati di luoghi dove studiare, biblioteche adeguate, servizi di ristorazione, campi sportivi, studi dignitosi per i docenti, aule attrezzate tecnologicamente; e case dello studente. Il confronto in termini di strutture tra la summenzionata università sudafricana e qualsiasi università italiana è talmente impietoso da far capire che imboccare questa via basterebbe a dissolvere buona parte delle ansie da classifica. Non vi sono i quattrini per farlo, o preferiamo usarli per iniziative pseudoculturali di provincia? E allora non ci si lamenti.
Poi, certo, si potrebbero escogitare altre trovate. Per esempio, scrivere ogni articolo e ogni libro in inglese, e fare tutte le lezioni in inglese. Ma questa sarebbe una scelta sciocca e inutile. Non solo perché l’originale sarebbe comunque migliore della copia. Ma perché l’inglese minimale di 500 parole necessario a scrivere un articolo tecnico è insufficiente per livelli espressivi superiori che si hanno soltanto nella madre lingua. E, soprattutto, perché sarebbe insensato disperdere e rinunciare al nostro principale punto di forza: la nostra cultura, legata a un patrimonio artistico e librario unico, che attira studiosi da tutto il mondo. La conoscenza superiore che si crea nelle università non è solo tecnologia o scienza applicata: basti pensare al peso della cultura umanistica a Harvard, la prima università in graduatoria.
Ben più serio sarebbe entrare nel merito del degrado della qualità dei corsi universitari indotto dal binomio laurea triennale-magistrale (3 + 2) e analizzare la preparazione che hanno oggi i laureati in materie scientifiche. Essi non hanno mai seguito in vita loro un corso annuale, che dispieghi una materia in profondità e ne costruisca l’effettiva padronanza; e sono invece costretti a saltabeccare da un corsetto all’altro ingurgitando nozioni senza acquisire la capacità di risolvere autonomamente dei problemi.
Eppure c’è chi propone addirittura di generalizzare il sistema della laurea triennale, riservando la laurea specialistica a poche università accreditate per un livello «superiore». La logica che ispira simili proposte è quella della formazione di “addetti” capaci di compiere operazioni limitate e finalizzate (strettamente pensate per il settore produttivo), senza l’autonomia e la flessibilità che deriva da una preparazione culturale ampia e profonda.

Se imboccheremo questa strada, consigliata dalla miopia di un certo mondo imprenditoriale, otterremo un doppio record: trasformare le università in istituti professionali (senza offesa per una nobile e fondamentale istituzione), oltretutto privi della ricchezza in termini di strutture materiali che consente a paesi culturalmente e scientificamente modesti di primeggiare nelle graduatorie.

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