Venti le località liguri da «bandiera blu». Maglia nera, invece, per l'Abruzzo

Era il luogo del «tutto si crea, nulla si distrugge», parafrasando Lavoisier: Internet ci appariva così, mausoleo in divenire dove l'immortalità vegliava su link, contenuti, parole, lettere. Da ieri, questa regola non scritta è stata sconvolta dalla sentenza della Corte Europea sul diritto all'oblio, riconosciuto per la prima volta anche nel web: «Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi». Questa la motivazione della Corte contro Google e a favore di un cittadino spagnolo, che, digitando il suo nome sul motore di ricerca, si imbatteva in informazioni lesive della sua persona.
Perciò, il nuovo scenario che si profila è il seguente: se su Internet si trovano pagine poco gradite sul proprio conto, si potrà chiedere e ottenere la rimozione di esse, rivolgendo la richiesta direttamente al gestore del servizio. Che è tenuto a procedere immediatamente, altrimenti ci si potrà appellare alle autorità competenti. Il meccanismo dovrà poggiare su un attento equilibrio, che bilanci il diritto alla protezione dei dati personali con l'interesse generale del lettore. Infatti, il «diritto a essere dimenticati», sancisce la Corte, sussiste solo quando le informazioni presenti sul motore di ricerca sono «inadeguate, irrilevanti o non più pertinenti», oppure legate a un episodio avvenuto molto tempo prima.
La faccenda scatenante è la seguente: il sito spagnolo «La Vanguardia» riporta nel suo archivio una vicenda nel 1998, in cui si scrive che alcuni immobili di Mario Costeja Gonzalez erano stati pignorati e messi all'asta. Nel 2009, l'uomo contatta l'editore della testata per chiedergli la cancellazione dell'articolo, visto che nella ricerca su Google legata al suo nome era tra i primi risultati che comparivano. Di fronte al rifiuto, l'uomo cita in giudizio Google: dopo un tira e molla, si arriva alla sentenza di ieri. Il motore di ricerca sarà costretto a eliminare il contenuto, anche se l'articolo continuerà a rimanere online sul sito spagnolo.
La situazione chiarisce che l'oblio della rete, in fin dei conti, ha contorni assai sfumati. Google, utilizzato dagli europei per più del 90% delle loro ricerche, è il veicolo privilegiato per indirizzarci ai contenuti: se non indicizza determinate pagine, le probabilità di recuperarle diventano minuscole. Ma i web archive permettono di scovare link che altrimenti sarebbero impossibili da rintracciare: una sorta di cimitero di Internet. E se qualcuno decidesse di ridar vita a certe notizie morte, cosa succederebbe? Se le ripubblicasse su siti o blog, sarebbero nuovamente indicizzati sui motori di ricerca. L'oblio è dunque una chimera. Tant'è vero che, se digitiamo sui motori di ricerca il nome di Mario Costeja Gonzalez, ritroviamo, all'interno delle pagine che spiegano la sentenza, ancora una volta la sua storia di indebitato verso il fisco. Un effetto eco senza termine.
Google, nel frattempo, disapprova: «Si tratta di una decisione deludente. Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall'opinione espressa dall'Advocate General della Corte di Giustizia Europea».

Infatti, poco meno di un anno fa, la Corte dell'Ue dava ragione a Google: «Il fornitore di servizi di ricerca su Internet non può essere considerato come controllore del trattamento di dati personali». Cioè, il motore di ricerca non aveva responsabilità e non era tenuto a rimuovere nulla. A Mountain View se ne sono ricordati: l'oblio, anche stavolta, non ha avuto scampo.

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