Io, nato in Libia non perdono chi ci ha cacciato

Avevo otto anni e Natale riunì la nostra famiglia, un bel gruppo numeroso, nonna Redenda che faceva la sarta e confezionava gli abiti per clienti benestanti, mia madre Elvira che l’aiutava, mia sorella Rosa Maria, gli zii Franco e Ferdinando, le zie Maria e Pina e poi i cugini, insomma i Gentile di Noto e i Valvo, venuti via dalla Sicilia nella speranza di una grande avventura. Ormai la decisione era stata presa, avremmo lasciato Tripoli. Avevo otto anni, la Libia era la mia terra, ero nato nell’ospedale italiano della città dove i miei erano immigrati nel Ventotto. Papà lavorava in una ditta di perforazioni petrolifere, la Libia di quel tempo era un felice porto di arrivo per chi cercasse lavoro, di qualunque tipo e con un salario soddisfacente. E la vita del popolo libico era decisamente migliore di quella che ha dovuto sopportare in questo lungo periodo di dittatura. La presenza degli americani, degli inglesi, degli italiani, aveva dato loro speranza, possibilità di dialogo con lingue e mentalità diverse tra loro. I rapporti diventarono poi più aspri, per farsi critici agli inizi degli anni Sessanta.
La nostra casa stava in sciara, che sarebbe via in arabo, Amba Aradam e la scuola elementare che frequentavo stava in sciara Istical. Un’ora al giorno studiavo arabo. Gli zii Franco e Fernando lavoravano alla Fiat di Tripoli e un ufficiale dell’esercito libico si presentava spesso per il controllo della sua automobile, una 124: il nome dell’ufficiale? Gheddafi. Allora non odiava gli italiani. Vennero giorni difficili e dopo trentatre anni, dunque, la mia famiglia fu costretta a lasciare quel Paese, prima che la rivoluzione incominciasse a cambiare la vita di tutti. Fu scritta una legge che è ancora in vigore: tutti gli italiani nati in Libia erano ritenuti fascisti, dunque espulsi e mai più graditi e ammessi in quel Paese. Ho cercato due volte di riportare mio padre e mia madre a Tripoli, volevo far loro un regalo, papà sognava di rivedere i luoghi di una fetta importante della sua esistenza, gli amici, la casa, se ne esiste ancora una traccia, la scuola, l’edificio della Fiat. Per due volte la mia richiesta di visto è stata respinta, negata, nessuna possibilità di tornare in Libia, una legge incivile, una decisione assurda che non ha alcuna spiegazione. Io non sono un terrorista, non sono un elemento pericoloso, non so nemmeno che cosa sia stato il fascismo e sono stato bollato come fascista, eppure nel millenovecentoottantadue, quando ho vinto con la nazionale italiana il titolo mondiale di calcio in Spagna, seppi che a Tripoli furono orgogliosi di sapere che ero nato in quel Paese, quasi fossi ancora uno di loro. È questa l’ingiustizia del governo di Gheddafi, è quel divieto a spiegare altre mille cose.
L’Italia vive una vita democratica da sessant’anni e quella legge è un insulto agli uomini civili, è un’offesa per chi ha lavorato in quelle terre, ha gioito, ha sofferto, ha contribuito alla nascita e alla crescita del Paese che poi è entrato nel buio. Il popolo libico si è alla fine ribellato perché ha avuto memoria, nei vecchi, di quello che il regime ha cancellato, il Paese è ricchissimo ma la povertà è impressionante e allora il popolo non ha più tollerato che soltanto pochi privilegiati potessero godere di una vita migliore. Chi ha fame, chi non riesce nemmeno a trovare il denaro necessario per acquistare il pane, finisce per sfogare la rabbia con la ribellione.

L’idea di incontrare Gheddafi, in occasione del suo viaggio in Italia, non mi ha nemmeno sfiorato perché non mi può interessare un uomo che nega la possibilità a me e ai miei genitori di visitare il Paese della mia infanzia, della loro vita. E i morti di queste ore sono i vivi di sempre, perché la Libia non merita questo epilogo tragico, come non merita di continuare a vivere fuori dal mondo civile.

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