Iowa, il reverendo Huckabee sgambetta i big repubblicani

A sorpresa, nei sondaggi, il semisconosciuto pastore battista supera alla grande i rivali più quotati

da Washington

Dal sorpasso al volo solitario: se tutta l’America fosse come l’Iowa avrebbe quasi già il successore di George Bush. Salito come una meteora. Ancora pochi giorni fa perfino il suo cognome era poco noto e difficile da pronunciare, quasi uno scioglilingua: Huckabee, che suona molto come un singhiozzo, hiccup in inglese. E adesso ecco le cifre. Il più recente sondaggio per l’Iowa, il terreno del primo confronto elettorale fra gli aspiranti alla Casa Bianca, il 3 gennaio, dà nella gara fra i repubblicani, Mike Huckabee al 39 per cento, con un vantaggio quasi abissale di 22 punti sul secondo, che è Mitt Romney, che fino a dieci giorni fa capeggiava la classifica. E dietro Romney il vuoto o quasi: in declino ulteriore Fred Thompson e John McCain, stagnante Bill Richardson. E dove è finito Rudy Giuliani, il superfavorito ancor oggi nei sondaggi su scala nazionale per la successione di Bush? Nell’Iowa era ancora al 15 per cento, adesso è crollato al 9, sta per essere rimontato perfino da Ron Paul, l’improbabile libertario che è in gara però come repubblicano.
L’Iowa, naturalmente, non è l’America. Però è il primo Stato a votare e il suo risultato riceverà un’attenzione ingigantita rispetto alle sue dimensioni democratiche, specie se darà indicazioni più o meno analoghe in New Hampshire che andrà alle urne cinque giorni dopo. Lo si vede anche dal movimento in corso nella gara parallela, quella fra i democratici. Anche qui c’è stato un sorpasso a sorpresa: Hillary Clinton non è più in testa, Barack Obama ha colmato a poco a poco un ritardo abissale e l’ha sorpassata, 35 a 29 per cento. Sono in crisi i due candidati considerati più forti soprattutto per la loro esperienza, da un lato Giuliani, supersceriffo di New York, dall’altro la Clinton, che alla Casa Bianca ci ha già vissuto otto anni, sia pure come first lady.
Il declino parallelo si spiega solo in parte con fattori nazionali. Il solo chiaramente identificabile è l’Irak. Da quando le cose vanno meglio se ne parla sempre meno, il che può far anche piacere a Bush, temporaneamente liberato dalla massima piaga della sua presidenza, ma non per Giuliani, che ha mirato finora a scavalcare Bush a destra, mostrandosi più «falco» di lui. Ma è danneggiata anche Hillary, per cui l’Irak, curiosamente, è un argomento che frutta. Gli elettori democratici odiano quella guerra, ma visto che c’è preferirebbero mandare alla Casa Bianca quello fra loro che dà l’impressione di trovarsi meglio al timone nelle tempeste di un mondo pericoloso.
Ma soprattutto c’è il fattore Iowa, con un sistema di votazione peculiare e soprattutto con un elettorato molto particolare. È uno Stato che in genere preferisce i democratici ai repubblicani nelle presidenziali, ma che non ha le masse urbane che da sempre sono la spina dorsale del Partito democratico. Di qui una maggiore propensione per chi porta delle «novità», come il primo candidato di colore alla Casa Bianca. Quanto ai repubblicani dell’Iowa, essi sono una minoranza agguerrita in cui c’è poco posto per i «moderati», ma anche per la «gente di città». Lo sceriffo di New York li lascia indifferenti, l’eroe di guerra McCain non si è neppure presentato per tenervi dei comizi.
Il più attivo di tutti è stato invece Romney, che però ha cercato di condurre una campagna nazionale più che locale e che adesso si è scontrato con la realtà demoscopica dell’Iowa. Che nella sua versione repubblicana è dominata da una «fazione» delineata dalle convinzioni religiose. I repubblicani dell’Iowa sono quasi tutti bianchi e quasi tutti protestanti. Ma il 40 per cento di loro appartiene precisamente alle denominazioni «evangeliche» che tanta parte hanno nel Partito repubblicano di oggi, ma che lassù sono particolarmente compatti. Preferivano Romney, mormone e puritano, al «laico» McCain e a Giuliani, che oltretutto è cattolico. Finché non si è presentato Huckabee, che non solo è evangelico, ma è anche un ecclesiastico, un pastore battista che ha preso gli ordini. È certamente un integralista, che ha saputo trasportare il suo duello con Romney dalla pedana politica a quella religiosa.

È cristiano un mormone? Romney giura di sì, Huckabee allude che no e fa domande teologiche. Per trarne una conclusione personale. Si risponde da solo, con una definizione impegnativa: «La fede non si limita a influenzare le mie azioni: mi definisce». E sui suoi manifesti c’è scritto: «Un leader cristiano».

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