Gian Micalessin
da Teheran
«Come stiamo? Non così male da fare la rivoluzione, né così bene da esser felici». Quando lo vidi lultima volta Hamid aveva negli occhi il lampo della preda. Oggi ha lapatia di un cane bastonato. Lavevo incontrato durante le manifestazioni del giugno 2003. Passava la giornata in fumose riunioni, la sera correva da una casa allaltra mentre i suoi amici scomparivano a poco a poco. E ogni nuova assenza veniva sigillata da quella parola di quattro lettere «Evin», il carcere dei dissidenti, lassù sulla montagna. Oggi lunico segno di ribellione nei 24 anni di Hamid sono quei capelli lunghi raccolti nellelastico. «Ci hanno distrutto, a me è andata bene, non sono finito in carcere, ma gli altri han visto linferno... Da allora cerco solo di sopravvivere».
Sopravvivere, aspettare, resistere. A tre giorni dalle elezioni presidenziali di venerdì le parole dordine dei giovani iraniani sono solo queste. Uno spleen maledetto, una rassegnazione sottile divora anime e cuori trasformandogli in abulici accidiosi spettatori. Sono ancora i due terzi del Paese, possono ancora decidere le sorti delle elezioni, ma sono 48 milioni di anime malate, svuotate, annebbiate. Anime sballottate tra le promesse dei candidati e il sogno di unastensione di massa capace di negare legittimità al sistema.
Di certo quello di dopodomani sarà un voto strano, atipico molto diverso da quelli del passato. E non solo per quelle bombe misteriose, tre esplose anche ieri nel sud del Paese e una ritrovata e disinnescata allinterno delluniversità di Teheran. Pur avendo stroncato le speranze di grandi cambiamenti, anche i conservatori sembrano aver capito, alla fine, di non poter stravincere. Le ronde dai basiji, gli zeloti della rivoluzione tornati dopo il 2003 a controllare i veli delle donne e a sniffare gli aliti dei tiratardi alla ricerca dalcol, sono rientrati in caserma. Ogni richiamo religioso sembra scomparso. Nessuno invoca la guerra santa contro il Grande Satana, gli inni al martirio sono canzoni dellaltro secolo. Lunica promessa, buona per tutti, è quella di più posti di lavoro e maggior benessere.
Il primo a cavalcare la tigre di questo riformismo cinese in salsa iraniana è lex presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani. Non promette certo la fine della Repubblica islamica, ma un processo di liberalizzazione progressiva e di risanamento economico garantito dalla sua capacità di manovrare le leve del potere e controllare gli eccessi dei duri e puri intruppati intorno alla Guida Suprema Alì Khamenei. La ricetta sembra far comodo anche a questultimo. I due non si amano, ma anche il rigido Khamenei sembra non disdegnare lidea di scrollarsi di dosso limmagine di irriducibile integralista. La fortuna di Rafsanjani è quella di non avere a destra nessuno in grado di bloccare la sua corsa verso la vittoria.
Da quelle parti il candidato più in forma è lex capo della polizia di Teheran, Mohammad Baqir Galibaf. Il questore ex pasdaran spauracchio ai suoi tempi di universitari e giornalisti oggi si presenta in maniche di camicia e occhialini azzurri e promette di far piazza pulita dei corrotti nascosti tra le pieghe del sistema. Il suo populismo di destra sembrava funzionare, ma ora, stando ai sondaggi, lex ministro dellEducazione Mostafa Moin, ultima speranza dei riformisti, sembra vicino a strappargli la posizione di secondo candidato favorito. I due più pericolosi nemici dellex questore Baqir Galibaf sono gli altri candidati conservatori. I due, il detestato ex presidente della radio e televisone Alì Larijani, fedelissimo di Khamenei, e lex capo dei pasdaran Mohsen Rezai sono completamente fuori gioco, ma si rifiutano di ritirarsi e sottraggono voti a Galibaf. Anche per il riformatore Moin le incognite sono tutte a sinistra. Non tanto per la vacua presenza di due concorrenti senza speranze come lex presidente del Parlamento Mehdi Karoubi o del vice presidente Mohsen Mer Alizadeh quanto per il rischio di un astensionismo ancora in agguato. La bandiera dellastensionismo inteso come disobbedienza civile e rifiuto integrale del sistema è stata proposta da Akbar Ganji, il giornalista in carcere da cinque anni per aver pubblicato le prove del coinvolgimento del regime nelluccisione di alcuni dissidenti. Il 21 maggio scorso, durante un breve rilascio dal carcere, Ganji ha invitato lopposizione a disertare il voto. Ma quellinvito sembra perder forza man mano che crescono le possibilità di Moin di strappare il secondo posto e andare al ballottaggio contro Rafsanjani.
Il rischio per i riformisti è di arrivare al voto divisi e di non riuscire a garantire i voti sufficienti per unaffermazione di Moin, né a imporre unastensione così ampia da poter esser definita disobbedienza di massa.
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