Irving ad Auschwitz: «È come Disneyland»

Avevamo e ho difeso il diritto, per chiunque, di esprimere le proprie idee: anche quelle dei «negazionisti», cioè gli storici che - come David Irving - negano lo sterminio degli ebrei nelle camere a gas.
Non si trattava e non si tratta di dare loro credibilità, ma di un semplice principio (il rispetto della libertà di pensiero) e della convinzione che sia meglio confutare piuttosto che soffocare nel silenzio; meglio sbugiardare i negazionisti sul piano storiografico che metterli in galera, dando loro l’aureola di un martirio intellettuale. Ebbene, ieri ci ha dato ragione l’impressionante documento andato in onda a Controcorrente, il programma di Corrado Formigli su Sky News.
Come si sa, Irving ha passato 420 giorni di isolamento in un carcere austriaco per le sue tesi negazioniste. Poi è stato liberato, avendo parzialmente ritrattato. Ma il programma di ieri è la prova migliore che la galera non serve, perché Irving non ha mutato di una virgola le proprie idee, anzi. Accompagnato da un bravissimo autore di Sky, Andrea Casadio, ha fatto la sua prima visita al campo di concentramento di Auschwitz. E già apprendere che solo ora abbia esplorato l’oggetto dei suoi studi, la dice lunga sulla serietà dei medesimi.
La giustificazione di Irving basta a spiegare il suo stato d’animo beffardo e prevenuto: «Auschwitz è come i casinò di Las Vegas: quelli che vincono, come me, non li lasciano entrare». Porta con sé otto tulipani gialli, «Per dimostrare che vengo in pace». Ma li deporrà («Molto triste») davanti al muro dove venivano uccisi con un colpo alla nuca i prigionieri politici polacchi. Nessun pensiero per gli ebrei sterminati a centinaia di migliaia a poche decine di metri, a dimostrare il sentimento che lo guida: un feroce, cieco antisemitismo.
L’unica condizione posta da Irving per la realizzazione del servizio è stata che non gli venissero fatte domande, ma il risultato è ancora più grottesco perché, pur non sollecitato, straparla con grevità inaudita e - insieme - con leggerezza insensata: «Auschwitz è stata trasformata in una Disneyland per turisti». Si fa beffe delle torrette di guardia («Falegnameria polacca, figurarsi se le SS stavano lì», dice senza celare la sua ammirazione per l’efficienza dei nazisti («L’edificio per disinfestare i prigionieri era già all’avanguardia»).
Osservazioni oziose, perché è stranoto che il campo, semidistrutto alla fine della guerra, è stato parzialmente ricostruito. Soprattutto, Irving finge di non sapere che la maggior parte delle cremazioni avvenivano in due campi vicini, e si compiace di osservare che non possono essere state distrutte tante vite umane in quei piccoli spazi, dove cammina con il passo del trionfatore.
Una troupe russa arriva al campo con un povero vecchio, un avanzo d’uomo, sopravvissuto allo sterminio proprio in quel luogo. Irving lo dileggia, dice che sembra un cadavere, «gli potrebbe cadere un braccio da un momento all’altro», e rifiuta di parlarci, sostenendo che è l’altro a non volere, mentre il disgraziato invece ha soltanto difficoltà a scendere dal pullmino. A sera, Irving cena in albergo, e stavolta l’ex internato è in piedi e chiede di parlargli, invano: il grosso, grasso negazionista inglese si alza e va a un altro tavolo: «Non voglio che qualcuno rovini la mia cena piacevole con discussioni politiche».
Discussioni politiche, dice proprio così, mettendo sullo stesso piano la vittima e se stesso, nuovo carnefice, che ha fatto della negazione dell’Olocausto una questione ideologica. Lo ha messo bene in risalto, nella discussione seguita al servizio, lo storico Marcello Pezzetti, che a Auschwitz è andato almeno centocinquanta volte.


Irving non tiene minimamente conto neanche della stessa documentazione nazista, immensa, che fornisce dati precisi e inequivocabili sulle forniture del materiale necessario dello sterminio: «La sua è un’attività antiumana, prima ancora che antisemita, e un altro po’ di cella non gli farebbe male», ha detto Pezzetti, che a un certo punto non è riuscito a contenere lo sdegno e l’ira. Ma sono più d’accordo con Umberto Croppi, che ha concluso il dibattito: «Il negazionismo esce peggio da questo documento, che dal sapere Irving in prigione».
Giordano Bruno Guerri
www.giordanobrunoguerri.it

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