Cultura e Spettacoli

Isabelle Huppert sempre la solita: troppo brava

nostro inviato a Venezia

«Il mio personaggio non l'ho interpretato, l'ho vissuto. E vivendolo l'ho capito». Gli occhi azzurri di Isabelle Huppert ti esaminano con disarmante franchezza. Quando li nasconde dietro i neri occhiali da sole, è come se staccasse la corrente e rimanesse questo fisico minuto, esile eppure muscoloso, il pallore del volto che il rosso dei capelli e del vestito illumina di una luce dorata. «Marie è una donna molto fisica, una che va in moto, guida il camion, porta il trattore... E la sua fisicità è la spia del suo carattere. È una donna forte, ma è anche una donna velleitaria: crede di avere il controllo delle cose, e non vuole accettare l'idea che la vita possa disporre altrimenti. Semplicemente, non vuol vedere, ed è per questo che la perde».
Ogni volta che la Huppert viene alla Mostra del Cinema di Venezia è sempre la stessa storia: è la più brava, ma è diventato imbarazzante premiarla. È un déjà vu che non fa più notizia e rischia l'assuefazione: «Ancora lei, sempre lei».
In Francia la considerano «la prima della classe» e non è un caso che allo scorso Festival di Cannes fosse lei a presiedere la giuria. Anche lì, Isabelle è di casa: c'è andata sedici volte, ha vinto due Palme, ha cento film e trent'anni e passa di carriera alle spalle, ha sempre scelto registi e ruoli con maestria. «C'era un romanzo di Doris Lessing che mi aveva affascinato: raccontava il Sud Africa fra le due guerre. Ne ho parlato con Claire Denis, una regista con cui mi sarebbe piaciuto lavorare, e White Material è nato così, da quella suggestione poi accantonata e/o rielaborata. Nel film a un certo punto si vede una foto incorniciata della Lessing, un po’ come se fosse un ritratto di famiglia. È stato un gesto d'omaggio».
White Material racconta la storia dei Vial, piantatori francesi di caffè da due generazioni alle prese con le guerre civili, la corruzione e la violenza endemica che hanno finito con il disegnare gli ultimi decenni della post-colonizzazione. Ci sono i bambini-soldati e le milizie ribelli, l'esercito regolare e i contingenti militari occidentali costretti a guardare o ad andarsene, così come i coloni bianchi, stretti fra la paura di perdere la vita restando e la consapevolezza di perdere comunque tutto fuggendo. «Marie non se ne vuole andare», dice la Huppert. «È la sua terra, è nata lì, c'è vissuta e ci vive ancora suo padre, ha un figlio e in casa c'è posto anche per l'ex marito, il figliastro e quella che ormai da anni è la sua nuova compagna. Ma l'altro motivo forte è che lì lei ha un ruolo, è la capofamiglia, vuole dimostrare a se stessa e agli altri che ce la può fare, che ce la possono fare. Prima ho citato la Lessing, ma nei romanzi di un altro grande scrittore sudafricano, Coetze, ci sono molti tipi umani come lei, appassionati eppure ciechi». Al di là delle contingenze della storia e della cronaca, il genocidio in Rwanda, la tragedia del Congo, l'Africa che leggiamo quotidianamente sui giornali, c'è in White Material, dice ancora l'attrice, «qualcosa di shakespeariano. I conflitti grandi e piccoli, i complotti politici ma anche i complotti familiari».
Tradotto letteralmente, White Material è il «materiale bianco», un modo per intendere un'appartenenza nel momento in cui quel colore cessa di identificarsi con una persona e rimanda a un'estraneità, un qualcosa di inanimato da estirpare. «Io non faccio film per pormi delle domande politiche o per dare delle risposte politiche», dice la regista. «Certo, c'è in White Material il riflesso dell'attualità, ma a me premeva raccontare qualcosa di diverso rispetto al modo compassionevole o indignato con cui guardiamo a quelle realtà. Molto più semplicemente, cercavo una storia in cui la protagonista fosse una donna che lì in Africa non si sentiva né un'estranea né una sfruttatrice. Quella terra la vive come sua, è un legame che non può essere reciso».
Christophe Lambert è nel film l'ex marito di Marie Vial, Michel Subor, che esordì nel cinema nel 1961 come l'amante di Brigitte Bardot in La bride sur le cou, l'anziano padre al cui modello la figlia vuole restare fedele, Nicolas Duvauchelle il figlio Manuel, che la madre protegge ma non capisce.

Isabelle Huppert attraversa il film dall'inizio alla fine, fragile, indomita, in corsa verso la propria distruzione.

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