Cronaca locale

JACQUES TATI Per criticare il mondo servono poche parole

Fra i registi più affascinanti del cinema sonoro ci sono quelli che girano film quasi muti. Oggi c'è il finnico Aki Kaurismäki, che ha firmato capolavori come Nuvole in viaggio (1996); ieri c'era Jacques Tati, al quale il Centre culturel français di Milano (corso Magenta 63) dedica una retrospettiva da sabato 19 gennaio a giovedì 14 febbraio (per il programma completo, vedi riquadro accanto).
D'origine russa, nato Jacques Tatischeff a Pecq, presso Parigi, nel 1907, aveva esordito come mimo nel 1934, ispirandosi al mondo dello sport. Ex giocatore di rugby, allora lo sport per antonomasia in Francia, Tati rimase sempre legato alla rappresentazione dell'atleta. Del suo talento, una scrittrice come Colette, che aveva calcato le scene, scriveva: come mimo, Tati «riesce a essere insieme tennista, pallina e racchetta, palla e portiere, pugile e avversario, bicicletta e ciclista».
Come attore, Tati aveva girato da comprimario per Claude Autant-Lara in Solo una notte e nel Diavolo in corpo, il capolavoro tratto dal romanzo di Raymond Radiguet, dopo che Marcel Carné l'aveva preso in considerazione, ma infine scartato, a vantaggio di Jean-Louis Barrault, nella selezione per il ruolo di protagonista in Amanti perduti.
Alla regia, Tati era arrivato nel 1947 con Jour de fête, storia di François il postino (Tati), così naturalmente e involontariamente somigliante al generale de Gaulle, che difende, con la sua bicicletta, l'onore delle poste francesi, minacciate dall'aeropostale americano. E poi affiorava il contrasto fra la tranquilla campagna e la fretta dei parigini in vacanza, pronti a farsi largo a colpi di claxon.
Nel 1953 Les Vacances de Monsieur Hulot, con l'irrisione del turismo di massa, impongono Tati definitivamente. E lui non abbandonerà più il personaggio di Hulot, riproponendolo nel 1958 in Mon Oncle (Mio zio). Sulla piega che prendeva Parigi già allora il film non lasciava dubbi: l'arroganza dei neoricchi che si fanno progettare la casa da architetti, e poi non sanno letteralmente come abitarci, veniva messa in contrasto con la semplicità dello zio (Tati) e del bambino. Era il seguito ideale di un altro capolavoro che è stato recentemente restaurato, Le ballon rouge di Albert Lamorisse (1956), che meriterebbe di essere a sua volta proposta dal Centre culturel français.
Nel 1967, Playtime - storia di un gruppo di turisti che parte da un aeroporto americano per arrivare in un altro, francese ma esattamente uguale e per muoversi in una Francia che di francese ha ormai poco - Tati perfezionava la critica della modernità.

Ma non c'era nemmeno un bambino a dare la speranza che lo ieri potesse continuare nel domani, considerando l'oggi un incidente di percorso.

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