Igor Principe
Parlare con Enzo Jannacci è come costruire un puzzle. La conversazione si frantuma in pezzi sparsi qua e là, che alla fine - non sai come - compongono un'immagine definita. La sua è quella di un uomo che dimostra meno dei settant'anni compiuti il 3 giugno scorso, e che ha ancora voglia di stare su un palco a cantare e a raccontare storie dai contorni improbabili. «O, come diceva Gaber, di star là sopra a far casino. Sì, sì, gli rispondevo, a te pare un gran casino. Ma a me ci sono voluti quattro mesi per organizzarlo».
Di nuovo, è il puzzle l'idea che si fa strada quando Jannacci fa qualcosa. L'ultima è un disco, Milano, 3/6/2005, piatto forte del concerto in programma stasera al festival di Villa Arconati, a Castellazzo di Bollate. Intitolato con la data del suo più recente compleanno, è un viaggio nella storia meneghina condotto a cavallo dei brani più noti del repertorio popolare dialettale, alcuni dei quali firmati dal medico-cantautore. Veronica, El purtava i scarp del tennis, Andava a Rogoredo, La Balilla, Ma mi sono parte di una scaletta nella quale compaiono in una veste radicalmente nuova, disegnata dagli arrangiamenti scritti dal figlio Paolo, trentenne di solido talento e fresco di un'esperienza da attore (era nel cast del film La febbre, con Fabio Volo).
«Paolino è un riferimento importante per la mia musica - dice Jannacci senior -. Però, come dice la canzone, i figli volano via. Adesso sta studiando la fisarmonica perché ha in programma un disco di tanghi». Più che studiarla, la sta perfezionando, essendo Paolo tra i più quotati interpreti dello strumento. Il cui suono, struggente e paesano, si unirà a quello della viola, del flicorno, dell'armonica, dei sax e del bandoneon, suonati dai 6 musicisti che accompagnano Enzo a Villa Arconati.
«Sono arrangiamenti nuovi per brani vecchi, che paiono più razionali e semplici di quanto già fossero - racconta -. In questo concerto prepariamo il terreno per il tour della prossima stagione, una quarantina di date tra settembre e dicembre. Le canzoni in milanese sono come discorsi su personaggi di una volta, gente vissuta ai tempi di mio nonno, inizi del secolo scorso. Tra le mie cose, sono quelle che preferisco, e mi pare che anche il pubblico apprezzi, viste tutte le persone che tra uno spettacolo e l'altro mi chiedono di cantarle».
Per quegli stralci di milanesità, Jannacci ha previsto un sistema di sottotitoli. Avveniristico, a suo dire: «Come in Guerre stellari: arrivano, si leggono e scappano via». Le altre canzoni, invece, «ci sono perché bisogna far lavorare il bar. Ma anche perché ogni concerto rispecchia la mia personalità. Io sono un tipo curioso, tiro in ballo un sacco di cose e mi piace parlare anche dei problemi della povera gente, della quotidianità. E allora, dopo aver cantato L'Armando, ci sta bene La fotografia. Si ride e ci ferma a pensare, senza per questo voler essere come Beppe Grillo».
Jannacci ama chiamare i momenti parlati «le àncore». Quando le cala, è come fare un salto indietro di oltre trent'anni, ai tempi del teatro improvvisato in compagnia di Dario Fo. O degli amici del Derby, tra i quali lo era - e lo è tuttora - Renato Pozzetto. «C'è più teatro che cabaret, tra una canzone e l'altra - spiega -. Anzi, il cabaret non c'è proprio. Anche se con Renato è sempre come quarant'anni fa. Un giorno viene a casa mia e mi dice "Dobbiamo scrivere una canzone!".
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