Mentre ogni cosa a ogni altra cosa dice addio e tramonta per sempre, Joseph Roth (1894-1939) è lì. Pronto a offrire al lettore comprensione indulgente, purificando la realtà di tutte le sue scorie, il romanziere-cronista illustra un concetto caro agli occidentali in crisi, affezionati allidea della seconda chance. Ne Il secondo amore (Adelphi, pagg. 124, euro 112), infatti, una diversa opportunità immancabilmente si presenta. E nei 23 brevi racconti neorealistici, scritti dal 1919 al 1939 per i quotidiani tedeschi, intanto che Roth diventava «scrittore per tutti» («non si tratta, oramai, di poetare. La cosa più importante è ciò che si è osservato», premise al suo migliore romanzo, Giobbe), si passeggia tra detriti ben composti. In compagnia di violinisti, zii avari, redattori notturni, precettori e belle donne, è possibile sfogliare un catalogo ragionato (ma non troppo) di tipi umani e situazioni allorlo del collasso. Però la redenzione si apposta dietro langolo e ha il sembiante duna ragazza, che passeggia nel bosco «spinta da un entusiasmo sincero e perfino casto per la natura». Così è fatale che sbocci un amore tra Lisa («con una voce che era quasi il preludio di un abbraccio, la ragazza mi sussurrò che si chiamava Lisa») e luomo pronto a cavarsi il cappello, davanti a lei, «con un inchino così profondo, che già il saluto fu di per sé un omaggio degno di una regina».
Trasformando il racconto in uninformazione precisa, Roth rifugge dal sentimentalismo e spezza il dolce del Liebelei con lamaro del disincanto. Sarà Margot, la cugina del «secondo amore», una attrazione ulteriore, mentre la giovinezza, lestate e il bosco sullo sfondo scolorano. Ai compulsatori di Facebook si attaglia Rivedersi, cronaca di un casuale incontro tra ex-compagni di scuola, uno dei quali, «sempre esposto all'assalto di una reminiscenza», ne ricaverà tormento.
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