«Se Gesù sedesse alla mia scrivania questa notte, guardando fuori dalla finestra, tutta quella gente che ride felice per linizio delle vacanze estive, forse sorriderebbe e ringrazierebbe suo Padre»: laffollata scrivania in questione è inaspettatamente quella di Jack Kerouac, cavallo di razza della beat generation, noto al grande pubblico per il romanzo On the road, celebrata bibbia di una trasgressione compiaciuta e itinerante. Per questo motivo, larticolo in uscita sul prossimo numero de La Civiltà Cattolica e intitolato Il Dio di Jack Kerouac. I diari di uno «strano solitario pazzo mistico cattolico» è destinato ad aprire un fuoco incrociato tra chi intende riproporre un profilo a tutto tondo del grande scrittore americano e chi invece, per motivi ideologici, non intende mollare di un centimetro sulla vecchia cara immagine tutta droga, sesso e rock and roll. Se loccasione scatenante è luscita da Mondadori - per i 50 anni di On the road - di Un mondo battuto dal vento. I diari di Jack Kerouac, lautore dellarticolo è un giovane gesuita, Antonio Spadaro, critico letterario de La Civiltà Cattolica, non nuovo a questo tipo di «a tu per tu» con improbabili stinchi di santo: professore presso lUniversità Gregoriana e insieme esegeta di Carter e Tondelli, cultore di Springsteen, Spadaro, quando non è negli States, comunica col mondo con Skype. A noi che labbiamo interrotto, mentre ascoltava e studiava il rapper KJ-52, ha detto di essere stato lui per primo ad rimanere profondamente colpito dalla sensibilità cattolica di Kerouac, che, guarda caso, aggiunge fiero, aveva studiato dai gesuiti e doveva esserne rimasto contento, se in unintervista televisiva era arrivato a autodefinirsi «generale dellesercito dei gesuiti».
Addentrandosi nelle pagine dei diari di Kerouac, Spadaro smonta i falsi cliché che sullo scrittore si sono accumulati nel tempo: il tutto citando brani e interviste che lasciano a dir poco sbalorditi per la loro nettezza. Come quando Ted Berrigan chiese a Kerouac, in unintervista realizzata un anno prima della sua morte: «Come mai non hai mai scritto niente di Gesù?» e il grande Jack rispose: «Io non avrei scritto nulla di Gesù? ...tutto ciò su cui scrivo è Gesù». Il Cristo che abbiamo visto seduto alla scrivania è quindi vicino, presente, lì dove lo scrittore vive e scrive: è Persona fondante lespressione artistica stessa, costituisce the only soul, the only answer, lunica anima, lunica risposta. Kerouac stesso in una sua autopresentazione, scriveva di essere «non un beat ma uno strano solitario pazzo mistico cattolico». Inoltre, alcune immaginose considerazioni dello scrittore proprio sul termine beat, parola cardine di quel fenomeno generazionale di cui Kerouac fu capostipite e padre, ridanno vita, per non dire ribalta, allo sclerotizzato adagio del ribelle abbattuto e alla deriva: «È domenica mattina e il prete sta facendo la predica, quando allimprovviso dalla porta laterale della chiesa arriva un gruppo di personaggi della Beat Generation che indossano impermeabili legati con cinture come quelli dellI.R.A. e vengono avanti in silenzio per capire la religione. In quel momento ebbi la visione che la parola Beat significava beato...». La sconcertante interpretazione di questa parola ci chiarisce il tipo di illuminazione a cui lo scrittore tendeva veramente: non ribellione e scoglionamento, ma slancio, originale visione mistica, celebrazione delle powerful things del mondo e della vita. Come se non bastasse, nell'ultima intervista rilasciata prima di morire, Kerouac si riferì senza molto fairplay alla combriccola a cui si era soliti ascriverlo: «Un sacco di opportunisti, profittatori, comunisti saltarono sul carro. Ferlinghetti saltò sul carro e trasformò limmagine della beat generation che originariamente rappresentava persone che amavano la vita e la dolcezza. Ai giornali parlò di ribellione beat, di insurrezione beat, parole che io non ho mai usato, essendo cattolico».
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