Il Kosovo verso l’indipendenza E la Serbia rischia di esplodere

Tra una settimana la consegna all’Onu del rapporto della Troika

da Belgrado

«Il Kosovo è serbo», dicono sorridenti il regista Emir Kusturica, il calciatore Dusan Savic e il pallanuotista Aleksander Sapic, con altri divi sul manifesto governativo che campeggia ovunque. È il segno pacato e visibile del clima fra rimozione, rassegnazione ed esasperazione per l’incombente distacco da Belgrado, non più di un frammento di Jugoslavia - dopo Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia e Montenegro -, ma dello stesso cuore della Serbia. Un portavoce del ministero degli Esteri riassume: «C’è un clima da Rambouillet». Dove nel 1999 Madeleine Albright - già decisa alla guerra - ordinò agli albanofoni del Kosovo l’intransigenza e ai serbi la resa.
La consegna all’Onu del rapporto sul Kosovo - stilato da rappresentanti di Csi, Ue e Usa, la cosiddetta troika - avverrà il 10 dicembre. I kosovari albanofoni vogliono l’indipendenza; i serbi offrono tutto tranne quella. Appena l’indipendenza sarà proclamata, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia la riconosceranno; Russia e Cina no. E nemmeno la Spagna, che pensa al precedente che ne deriverà per i suoi baschi; tanto meno Cipro, che pensa a ciò che ne deriverà per i suoi turchi. Pur pensando a ciò che ne deriverà per i suoi tedeschi dell’Alto Adige, l’Italia obbedirà al riconoscimento, per non emarginarsi ulteriormente nella Nato e nella Ue.
Tempi previsti della secessione: fine gennaio o inizio febbraio. Condizioni previste: nessuna. E qui affiora la tenace logica punitiva di Stati Uniti e Gran Bretagna, in particolare. In cambio la Serbia non avrà la più logica ed equa soddisfazione: unirsi alla Repubblica Serpska. Ma qui il guaio smette di essere dei serbi, e dei serbi del Kosovo in particolare. Infatti in Bosnia si giocherà una partita parallela e più rischiosa: scambi di minacce fra governanti serbi e musulmani si intensificano, mentre gli animi delle popolazioni sono abbastanza ostili per passare ai fatti. Alla prima fucilata, gli accordi di Dayton finirebbero, e così perfino gli interventisti umanitari capirebbero che il saggio vince, non stravince.
Se anche gli accordi di Dayton superassero indenni la secessione senza compensazione, ci sarebbero i contraccolpi di due scadenze elettorali. La prima in Serbia. Il voto presidenziale potrebbe essere in gennaio, prima della secessione del Kosovo - come vuole il presidente uscente Boris Tadic, uomo della Nato e dell’Ue - per non scontare l’effetto dell’umiliazione nazionale; ma il capo del governo, Vojislav Kostunica, potrebbe anche decidere per marzo, quando la maggioranza popolare si orienterebbe sul candidato del Partito radicale (nazionalista) di Vojislav Seselj, in galera all’Aia.
La seconda scadenza elettorale sarà negli Stati Uniti, in novembre. Se porterà alla presidenza Hillary Clinton, con Richard Holbrook, artefice di Dayton, segretario di Stato, anche gli ingenui capiranno che tornano in sella i responsabili dei bombardamenti del 1999, i quali miravano alla Serbia, non a Slobodan Milosevic.
Mai ne ha dubitato Vladimir Putin, anche lui sottoposto ieri a un voto che lo ha rafforzato. Ha sempre detto che non riconoscerà il Kosovo indipendente, ma soprattutto pochi giorni fa ha annunciato che la Russia non è più vincolata dal trattato per le armi convenzionali, e che quindi dal 12 dicembre (due giorni dopo la data scelta da George W. Bush come termine per il destino del Kosovo) il trattato scadrà. I russi sono pronti a morire per Pristina? Boris Eltsin mandò truppe nel suo aeroporto nel 1999, rischiando lo scontro con la Nato.


Vojislav Kostunica vive i giorni più interessanti dopo quelli dello stato d’assedio, proclamato per l’omicidio di Zoran Djindjic, suo successore e predecessore alla guida del governo serbo. Mesi fa, il partito di Kostunica (Dss) ha già votato Nikolic, delfino di Seselj, come presidente del Parlamento: nomina effimera, ma chiara antifona per Tadic...

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