L’analisi/A questo punto tanto vale togliere le atomiche dall’Italia

Il nuovo trattato russo-americano per la riduzione delle testate nucleari strategiche e la contemporanea revisione in senso restrittivo della politica di difesa nucleare statunitense ripropongono un tema tanto annoso, quanto avvolto nel mistero: la presenza sul suolo italiano, in base all’accordo segreto «Stone Ax» di un certo numero di bombe atomiche americane. Sono ancora utili, adesso che la guerra fredda è finita e la minaccia non viene più dalla Russia? Potrebbero eventualmente servire in caso di conflitto con l'Iran, uno dei Paesi contro cui Washington si riserva il diritto di impiegarle in determinate circostanze? Perché, dopo che le bombe sono state ritirate via via da Canada, Grecia, Danimarca, Islanda e Gran Bretagna (che peraltro ne possiede di proprie), una rimozione di quelle dislocate nel nostro Paese non è stata finora neppure in discussione?
In assenza di notizie ufficiali, sulla materia esistono poche certezze. Nel 1999, il numero di queste bombe era stimato a 30, ma nel 2005, stando a uno studio del Consiglio americano di difesa delle risorse naturali - mai smentito dal Pentagono - sarebbero diventate novanta: cinquanta ad Aviano, e quaranta a Ghedi-Torri. Si tratterebbe di bombe tattiche del tipo B-61, con potenze variabili tra i 45 e 170 kiloton e una capacità distruttiva complessiva 900 volte superiore all'atomica di Hiroshima. Da un rapporto dell'Aeronautica americana del 2008 risulterebbe che i dispositivi di sicurezza del deposito di Ghedi siano stati giudicati carenti e che, di conseguenza, gli ispettori abbiano raccomandato lo spostamento di tutto lo stock ad Aviano. Ma, dopo quella denuncia, non se ne è saputo più nulla.
Comunque, già prima della pubblicazione della nuova strategia di Obama, qualcosa in Europa ha cominciato a muoversi. Secondo la stampa tedesca e francese, all'inizio dell'anno quattro Paesi della Nato che ospitano ancora armi atomiche americane - Belgio, Germania, Olanda e Norvegia - avrebbero chiesto al segretario generale dell'Alleanza di mettere la questione all'ordine del giorno del vertice di novembre. Almeno fino a questo momento, non risulta che l'Italia si sia associata a questa domanda. Ha perciò destato un certo stupore il sottosegretario alla Difesa Corsetto, quando il 24 marzo scorso ha dichiarato in una intervista a CNRmedia che «in Italia non ci sono testate nucleari»: se davvero il nostro governo avesse ottenuto dagli americani il loro ritiro, avrebbe infatti avuto tutto l'interesse a proclamarlo ad alta voce anziché comunicarlo, quasi «en passant» a una radio con modesti indici d'ascolto.
Qualunque siano le intenzioni del governo, i cambiamenti nella dottrina nucleare americana provocheranno senz'altro l'apertura di un dibattito. Ed è singolare che la sinistra italiana, che era ferocemente contraria alla presenza di queste armi in Italia quando erano indispensabili per contenere la minaccia sovietica, non abbia ancora detto una parola ora che possiamo tranquillamente sostenere che tanto vale ritirarle dal nostro Paese: ora non sarebbe più un reato di lesa-NATO.

E se invece le armi devono proprio restare, si dovrà ridiscutere se le bombe di Aviano e di Ghedi possano tornare utili alla nuova strategia, magari come deterrente in caso di escalation della tensione con l’Iran o gli altri Stati che Obama ha messo sulla lista delle eccezioni. Ma per il governo Berlusconi sarebbe comunque un successo risolvere un caso che, sia pure sottotraccia, ha coinvolto l'opinione pubblica per decenni e che sta cuore a molti cittadini, di destra e di sinistra.

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