L’epica silenziosa di messer De André

«Deandreide»: un’insolita raccolta di quattordici racconti di scrittori italiani (da Pascale a Lagioia) ispirati alle canzoni del cantautore genovese

«Belinate», decretò il Faber, e sogghignò. Di solito era più morbido, ma l’afa gallurese e l’ardore del Cannonau aiutavano a sciogliere il sussiego. Ricordo, si era accovacciati sull’aia, la Sardegna bruciava di sole agostano, alle nostre spalle la casa fasciata di foglie cremisi e dalla porcilaia il borbottio dei maiali, carnoso come borborigmi di bassotuba.
Parlavamo de L’indiano, all’epoca il suo ultimo disco: quella Sardegna pellerossa, già annunciata del resto in Rimini. «Secondo me - avevo detto - esiste un’antropologia deandreiana, cosa che nessun cantautore ha mai tentato. Con le sue tipologie, i suoi riti catartici, i suoi automatismi: bisognerebbe scriverne». Lui aveva strabuzzato gli occhi: «Fabrizio De André un antropologo? - aveva ribattuto - Stai scherzando. Per me mi considero un autore di novelle, ed è già un bell’impegno».
Avevamo, probabilmente, ragione entrambi. Sennò non si spiega un libro inconsueto e spiazzante com’è questo Deandreide. Storie e personaggi di Fabrizio De André in quattordici racconti di scrittori italiani (Rizzoli) curato da Giorgio Vasta. La formula? Quattordici scrittori hanno scelto altrettante canzoni di Fabrizio De André, da ognuna ricavando un racconto. Quattordici «novelle» dove spesso la narrativa sfuma nella saggistica, secondo la ricetta borgesiana, e dove l’universo poetico del cantore genovese dilata, confermandola, la sua capacità di definire il mondo d’oggi, con i suoi meccanismi e i suoi dislivelli: dove insomma «l’alto si mescola col basso, la grandezza con la miseria, il sublime con la mortificazione, disegnando alla fine, in questa nuova antropologia, il ritratto di ognuno di noi», nota il curatore nella prefazione.
Ma è, quella di De André, un’antropologia genialmente sghemba, che esplora il vissuto contemporaneo dalla prospettiva della marginalità: sicché - scrive ancora Vasta - «quando la narrazione istituzionale ha detto la sua, allora lui comincia a narrare le sue storie. A rovesciare presupposti e aspettative e tradizioni. E narrando le sue storie, come fa ogni grande narratore, De André comincia di fatto a reinventare il mondo, a deciderlo ancora. A perdonarlo, forse, e a dargli un’altra possibilità di esistenza». Come? Attraverso, direi, la fede temeraria nell’utopia, che è urgenza di libertà, solidarietà e pari dignità d’ogni uomo. Come in Se ti tagliassero a pezzetti, canzone-manifesto che il curatore par considerare dedicata ad un’amata, mentre la «signora Libertà, signorina Fantasia» di cui si parla non è una donna, ma un ideale.
È appunto in questa dimensione che i personaggi dell’artista genovese acquistano la loro ragion d’essere. Sono i «santi senza Dio» di cui parlava Errico Malatesta, gli sconfitti, i folli, i solitari che De André, rampollo riottoso di famiglia ricca e potente, cantò lungo tutta la sua carriera: da La città vecchia a Smisurata preghiera, la canzone-testamento dedicata a «chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione/ e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte una goccia di splendore/ di umanità di verità».
È a questo grandioso repertorio di vite calpestate, di meschinità purificate dalla sofferenza, di marginalità sublimate dalla solitudine che attingono gli autori mobilitati da Deandreide, pur con qualche velleitarismo e con episodiche deviazioni dal tema. O con qualche rilettura un po’ disinvolta: come in Bocca di rosa, che il bel racconto-poemetto di Marosia Cristaldi tramuta in mercenaria del sesso, ma che De André descriveva come solare dispensatrice d’amore, non «per professione» ma «per passione». Ma ecco da Sinàn Capudàn Pascià - era la storia vera d’un mozzo fatto schiavo dai turchi, e diventato gran visir - Giordano Meacci ricavare uno smagliante, selvatico affresco di vita marinara. E da Don Raffaé, dialogo tra un boss detenuto e un secondino servile, Antonio Pascale trarre spunto per mostrarci l’evolversi del business camorristico nell’èra del mercato globale. Così come Andrea Bajani riporta ai nostri giorni la vicenda di La bomba in testa, pagina del ’73 sui conati «rivoluzionari» dell’epoca: e anche questo - mostrare la perdurante attualità di De Andrè attualizzandone i racconti senza stravolgerlo - è tra i meriti del libro. Del resto basta leggere il testo di Domenica delle salme, radiografia dell’Italia di quindici anni fa, per scoprire, anche dalla rielaborazione di Nicola Lagioia e Christian Raimo, com’essa preannunciasse non meno spietatamente l’Italia di oggi. Dell’una attestando e dell’altra antivedendo - scrive Mauro Pagani nell’appassionata postfazione - «la vittoria definitiva della stupidità e della mancanza di morale».
Sarà pur vero che «le ceneri non sono mai sterili», come avvertiva Alfred De Vigny, e che «la memoria è il nome che diamo alle crepe dell’ostinato oblio», come cantava Jorge Luis Borges. Ma più che al ricordo che resta di lui, è alla sua capacità di specchiare il futuro, che dobbiamo se quella di Fabrizio De André continua ad essere, a sette anni dalla scomparsa, una querida presencia. Come fanno capire anche i racconti di Dario Voltolini, che s’ispira all’acre affresco de La città vecchia, e di Antonio Franchini, che in Le puttane della nostra giovinezza rievoca varie pagine del «cantautore» già celebrato in vita da Mario Luzi, Luciano Berio, Antonio Tabucchi, Fernanda Pivano, Alvaro Mutis.


Del resto cosa c’è di più attuale, in questa civiltà disamorata, economicistica, conflittuale, dell’eclisse dell’amore, annunciata dal cantore genovese in Un malato di cuore e in Verranno a chiederti del nostro amore, qui elette a modernissimo pretesto narrativo da Mauro Covacich e da Diego De Silva? Per non dire dell’oscena follia della guerra, bollata quarant’anni fa in La guerra di Piero e Girotondo, che oggi ispirano a Laura Pariani e ad Evelina Santangelo due tra i racconti più «contemporanei» di questa Deandreide.

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