Massimiliano Lussana
Ieri, a un certo punto, ha spiegato che lui «è utile per fare cose nuove». Si tratta di Giuseppe Follini detto Marco, ex segretario nazionale dei giovani democristiani, ex consigliere di amministrazione della Rai, ex segretario dellUdc, ex vicepresidente del Consiglio del governo Berlusconi, ex inquilino della Casa delle libertà e qui mi fermo perché questo è il Giornale e non la Recherche di Proust e lo spazio è necessariamente limitato. Ma potrei riempire la pagina di «ex».
Sta di fatto che il Marco Follini che, da ieri, è «utile per fare cose nuove» è lo stesso Marco Follini che un lancio dellagenzia Ansa delle ore 14,10 del primo settembre 1981 (millenovecentoottantuno) presentava come: «Marco Follini (doroteo)». Erano anni in cui la parentesi a fianco del nome era più importante rispetto al nome. Erano anni in cui Follini faceva coppia con Pier Ferdinando Casini come dioscuro di Toni Bisaglia che li presentava come due suoi figliocci, «uno bello e uno intelligente». E Marco, con la sua faccia da Harry Potter - il copyright è di Francesco Cossiga - e i suoi occhialoni di quattro taglie in più della faccia, faceva di tutto per far capire che non era lui quello bello.
Dodici anni dopo arrivò Silvio Berlusconi, arrivò il Ccd e, nel 1996, arrivò lingresso di Follini in Parlamento. Marco venne eletto in Puglia, sul proporzionale senza preferenze. Così come è stato eletto sul proporzionale senza preferenze (ovviamente, come tutti), in questa legislatura, la prima da senatore della Campania. Bisogna però dargli atto che, nella scorsa tornata elettorale, lunica volta che ha affrontato lodiato uninominale, ha sbaragliato gli avversari. Nel 2001, nel collegio di Bari-Mola di Bari, infatti, ha annichilito avversari del calibro di Vito Leccese, Paolo Scagliarini, Vincenzo Notarnicola e Giuseppe Lo Porchio. Un trionfo.
Dopo quel successo, Harry Follini detto Marco non è più stato lo stesso. Come il maghetto, ha diviso il mondo in due. Da un lato, i babbani, i non iniziati alla magia della sua politica, quella con la p maiuscola, quella dei libri sulla Dc, quella della rivista Formiche, quella della «terra di mezzo» e dell«uomo di mezzo» che sono la cifra stilistica del suo sito internet. Dallaltro, lui. Qualche volta, insieme a lui, Bruno Tabacci. Quasi mai, non più, Pier Ferdinando Casini, il gemello ormai separato.
Se Harry contro i babbani di Hogwarts può sfoderare interi libri di parole magiche, Marco contro i babbani del resto della Casa delle libertà ne ha usata solamente una, sempre la stessa: «discontinuità». Silvio Berlusconi era insediato a Palazzo Chigi, dopo la vittoria elettorale del 2001, da poche settimane e già Marco predicava: «Discontinuità», tre volte al giorno, prima e dopo i pasti. In un crescendo, un klimax, che ha raggiunto le sue vette quando Follini ha preteso la caduta del governo Berlusconi bis - cioè lesecutivo di cui era vicepresidente del Consiglio dei ministri (lo fu per quattro mesi e tredici giorni) - per dar vita al Berlusconi ter. La principale diversità fra i due governi consisteva nellassenza dello stesso Follini dallorganigramma. Ma, anche allora, non è cambiato niente: Marco ha mostrato inflessibile continuità nella domanda di discontinuità, condita dalla richiesta di una nuova leadership per la Casa delle libertà. Riscuotendo peraltro notevoli successi mediatici: la sua presenza su agenzie, giornali e televisioni, soprattutto di sinistra, è lievitata, con un andamento direttamente proporzionale alla pronuncia della parola magica.
Con lavvicinarsi delle elezioni, quando cioè solitamente si serrano i ranghi, il maghetto della dichiarazione ha dato il meglio di sé, con la collezione dialettica inverno-primavera-estate 2006. Nelle prime settimane di gennaio, ad esempio, quando il resto del mondo non aveva ancora smaltito il panettone, lui pensava «ad un centro» al riparo della contrapposizione fra i due schieramenti; bocciava senza appello labolizione della scalfariana legge della par condicio; attaccava Berlusconi per essere andato dai magistrati a denunciare quello che non andava nel caso Unipol; bocciava senza appello i manifesti del presidente del Consiglio sui risultati del governo a cui aveva votato la fiducia qualche giorno prima, spiegando: «Vedo in giro tanti manifesti in cui si inneggia al fatto che il programma è stato svolto e che cè chi dice che tutto è stato fatto. Invidio tanta fiducia». Il giorno dopo spiegava che «Berlusconi non deve stupirsi della freddezza degli alleati». Ancora una settimana e aggiungeva che «al centrodestra serve un altro leader». Ancora due ore e Giuseppe detto Marco faceva lelogio della noia in politica «poderoso antidoto alla frivolezza, al luccichìo ingannevole del divismo, al culto di una leadership personale che quasi sempre finisce per essere troppo deludente per quanto promette».
Insomma, ci siamo capiti.
Massimiliano Lussana
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