L’inchiesta su Unipol sotto traccia da tre mesi

Nessuna novità sui 50 milioni incassati da Consorte e Sacchetti L’ex presidente è stato interrogato soltanto una volta, a fine dicembre

da Milano

Cinquanta milioni di euro in attesa di una spiegazione convincente. L’inchiesta su Giovanni Consorte e sul suo vice Ivano Sacchetti, divisa fra Milano e Roma, è al palo da almeno tre mesi. O, se si preferisce, è avara di risultati. All’inizio dell’anno pareva che l’indagine dovesse dilagare verso il quartier generale dell’Unipol, in via Stalingrado a Bologna, e poi, chissà, travolgere la finanza rossa. Nulla di tutto questo, almeno finora, è accaduto e molti osservatori hanno provato a interpretare questo lungo silenzio. E hanno messo a confronto i numeri: Gianpiero Fiorani è rimasto in carcere quasi quattro mesi ed è stato interrogato la bellezza di 14 volte. Un record. Consorte, invece, dopo un primo faccia a faccia con i magistrati milanesi il 27 dicembre, è sparito dalla visuale della Procura. Come mai?
In realtà la situazione è parsa assai differente sin dall’inizio. Fiorani era seduto sulla poltrona più pesante della Banca Popolare di Lodi e da lì, fin quando ha potuto, ha saccheggiato l’istituto di credito, finanziando con le sue ruberie la cordata messa in pista per dare l’assalto ad Antonveneta. La scalata promossa dall’Unipol sembrava aver ben altra solidità: le Fiamme gialle stanno passando al setaccio tutte le operazioni compiute dal duo Consorte Sacchetti nel tentativo, poi fallito, di mettere le mani su Bnl, ma finora l’eventuale rete degli atti e dei comportamenti illeciti non è emersa.
Un fatto è certo. Fiorani si muoveva con straordinaria disinvoltura e ha continuato a operare al di là dei confini della legge anche dopo la prima pesante «ammonizione»: già il 3 agosto il gip Clementina Forleo aveva interdetto per due mesi da tutte le cariche Fiorani e il direttore della Bpi Gianfranco Boni, dipingendo il primo «come il vero promotore e organizzatore dell’aggiotaggio» e il secondo «come il suo braccio destro». A quanto pare, la mossa non era servita a fermare le loro scorribande. Fiorani, dopo il primo interrogatorio ancora in libertà, avea assicurato la sua disponibilità a far rientrare in Italia una settantina di milioni di euro parcheggiati nei suoi conti all’estero, ma la promessa era rimasta tale: «Una mera dichiarazione finalizzata a tamponare interventi repressivi», come l’arresto. Puntualmente arrivato il 13 dicembre.
La situazione di Consorte era ed è assai diversa. Anche se resta quel punto da decifrare: come mai il potente finanziere bresciano Chicco Gnutti versò quasi cinquanta milioni di euro a Consorte e Sacchetti? Davvero si trattava di consulenze lecite per la rinegoziazione del prezzo di Telecom?
Tutti e tre hanno difeso la tesi dei compensi professionali e tutti e tre sono stati indagati per associazione a delinquere. Gnutti ha sottolineato con i Pm i propri problemi di salute e in particolare l’infarto che lo colpì nei primi mesi del 2002, periodo cruciale per la vicenda Telecom. Quell’infarto, senz’altro il più caro della storia, spiegherebbe la discesa in campo della coppia. A gennaio, dopo un primo giro di interrogatori senza novità, qualcuno a Palazzo di giustizia aveva messo in conto un’escalation dell’indagine. Invece l’inchiesta si è inabissata come un sottomarino e sono andati avanti, fra rogatorie a Montecarlo e acquisizioni di documenti, gli accertamenti.


I conti si faranno alla fine: certo, il lavoro di scavo, già difficile, è ulteriormente rallentato per la grave malattia che ha colpito all’inizio dell’anno Consorte. Il manager è stato sottoposto a cure complesse e invasive, i verbali hanno lasciato il campo ai certificati medici, gli interrogatori sono stati sospesi. Almeno per ora, è stallo.

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