Quando, due giorni fa, ha presentato la sua mostra a Palazzo Reale, riferendosi alla serie di opere sulle torture inflitte ai prigionieri dai soldati americani nel carcere iracheno di Abu Ghraib, il colombiano Ferdinando Botero ha detto di non credere che larte possa cambiare la società, «ma serve a non far dimenticare». Proposito nobile, nobilissimo, come nobilissima è la denuncia dei massacri perpetrati su uomini indifesi da militari degli Stati Uniti, nazione - aggiunge Botero - «che si proclama paladina dei diritti civili». E per il «bel Botero in versione shock» è facile strappare plausi e applausi: degli intellettuali, dei critici, dei politici. E del pubblico, che da ieri affolla le sale della mostra compito, composto e commosso.
La grande virtù di un artista - si sa - è il colpo di genio, la novità, il dire o il dipingere, il mai detto e il mai dipinto, lessere controcorrente. Il vizio peggiore - è altrettanto noto - è il conformismo, il ripetere il già detto, lallinearsi al pelosamente corretto. E spiace che un artista per altri versi straordinario come Botero sia saltato, anche lui, sulla mina dellultimo e dei peggiori tra i conformismi: lantiamericanismo di maniera (parola terribile per un pittore). «Non potevo ignorare quanto è accaduto», ha detto. Ottimo: il silenzio è una colpa. Ma perché - ci chiediamo - solo ora, solo davanti alle torture degli americani nel carcere di Abu Ghraib ha gettato sulla tela tutta la sua indignazione? Da quando ha iniziato a lavorare, da quando proprio gli Stati Uniti ospitarono le sue prime mostre di squattrinato di talento, da quando proprio negli Stati Uniti, al Greenwich Village di New York, primi anni 60, si concesse un confortevole loft, Ferdinando Botero ha avuto parecchie occasioni di indignazione, anche solo guardando il continente americano.
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