Francesco Damato
C'è qualcosa di più difficile in Italia che vincere un referendum, specie dopo il clamoroso flop, peraltro meritatissimo, dei quattro appena svoltisi sulla fecondazione assistita, disertati da quasi il 75 per cento dell'elettorato?
Sì: è sottrarre alla gogna chi è stato ingiustamente indagato, arrestato, condannato ma alla fine assolto dalla gragnuola di accuse delle Procure della Repubblica specializzatesi negli anni 90 nel filone di «mani pulite».
Ne sanno qualcosa i sette imputati di un procedimento durato 13 anni e chiamato Anas, emblematico della «epopea» di Tangentopoli quasi quanto il processo Enimont, svoltosi a Milano sotto i riflettori della televisione e conclusosi solo in cinque anni, fra le indagini preliminari e i tre gradi di giudizio, grazie alle procedure sommarie adottate contro Bettino Craxi. I cui certificati medici venivano liquidati come penosi espedienti, e le piaghe da diabete scambiate da Antonio Di Pietro per «foruncoloni», in modo da inchiodare l'imputato alle condizioni di contumace, buone per bruciare i tempi delle udienze.
Il processo Anas non ha avuto la gloria televisiva di quello Enimont perché si è svolto a Roma, che in materia di «mani pulite» ha fatto un po' meno notizia di Milano.
E poi i tempi delle indagini e del dibattimento sono diventati troppo lunghi per i gusti e le abitudini dei cronisti giudiziari. Dei quali non ho visto neppure un'ombra nella trentina di udienze che mi è capitato di seguire qualche anno fa per riferirne ogni tanto sul Foglio, ma un po' anche per divertirmi a vedere sfilare davanti ai giudici come testi un bel po' di politici smemorati di mia conoscenza, tipo Rosa Russo Iervolino, che presumevano di aver fatto carriera in partiti e correnti finanziate dallo Spirito Santo.
Il più celebre e vilipeso imputato di quel processo è stato l'ex ministro democristiano dei lavori pubblici Gianni Prandini, entratovi con l'accusa di concussione per una lista di casi lunga come un menù di ristorante e uscitone con la condanna per corruzione a più di sei anni di carcere, dei quali sei mesi già scontati in isolamento durante le indagini preliminari, in custodia cosiddetta cautelare. Che fu disposta peraltro da un giudice così cristallino da finire poi espulso dalla magistratura.
Meno celebre ma tuttora in carriera è stato l'imputato Lorenzo Cesa, europarlamentare molto influente dell'Udc, condannato pure lui, nonostante le attenuanti guadagnatesi con una condotta processuale meno grintosa di quella adottata da Prandini.
Ebbene, tutti gli imputati condannati in prima istanza con una sentenza annullata all'inizio dell'appello in applicazione di un'ordinanza della Corte Costituzionale hanno ottenuto il 9 giugno scorso l'assoluzione dal giudice per l'udienza preliminare. Il quale su richiesta del pubblico ministero, lo stesso del primo processo, ha disposto il non luogo a procedere perché «il fatto non sussiste».
Non vi è stato uno straccio di giornale - e ne leggo parecchi, credetemi - che abbia pubblicato la notizia.
Essa andrebbe segnalata almeno a Marco Follini, che potrebbe ora avvertire il buon gusto di chiedere scusa a Prandini per averne commentato recentemente le dimissioni dall’Udc, presentate per dissenso politico, dichiarandosene onorato per via delle sue vicende giudiziarie, peraltro comuni a quelle del fidatissimo Cesa.
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