L’INTERVISTA BERTRAND TAVERNIER

ParigiAumentano gli Amis américains di Bertrand Tavernier: occupano ormai novecento pagine nella riedizione ampliata (Actes Sud) su Hollywood e dintorni. E al Festival di Berlino (5-15 febbraio) concorrerà In the Electric Mist («Nella nebbia elettrica»), che in Italia uscirà in marzo come L’occhio del ciclone, cioè con lo stesso titolo del romanzo di James Lee Burke (Mondadori, 1997) che l’ha ispirato. Per parlarne, Tavernier mi dà appuntamento nel ristorante di rue Poitou, da Fulvio, l’italiano che per lui cucina nella realtà e talora recita sullo schermo, fin da Ricomincia da oggi.
Signor Tavernier, la postlavorazione è stata così lunga che la nebbia elettrica pareva non diradarsi più...
«Ora il mixaggio è finito e sono contento. Voglio dedicare il film a Philippe Noiret, perché lui adorava l’investigatore Dave Robicheaux dei romanzi di Burke».
Al Festival di Cannes del maggio 2007 si vedevano già i manifesti del film. Poi che cos'è successo?
«Lo sciopero degli sceneggiatori americani bloccava anche quelli del film (Jerzy e Mary Kromolowski, ndr)».
Dunque?
«Certi dialoghi li ha scritti lo stesso protagonista, Tommy Lee Jones, che ha un grande controllo dell’inglese. E le parti per la voce fuori campo sono mie».
Tommy Lee Jones è appunto Robicheaux.
«Magnifico dialoghista, magnifico attore. Ha espresso tutti i sentimenti di Robicheaux: disprezzo, ironia, collera, violenza, spavento».
Lo sciopero è stato il solo ostacolo?
«Ci sono stati disaccordi con la produzione».
Come li ha risolti?
«Con l’intervento di coproduttori kazaki - gli stessi del film Mongol - e i loro cinque milioni di dollari».
Un francese che dirige un film kazako in Louisiana!
«E lo Stato della Louisiana che dà un anticipo sugli incassi».
Qualche dissidio anche artistico?
«Ho portato le bobine del film dagli Stati Uniti in Francia. Qui, in meno di quattro settimane, ho montato tutto».
Non si parte con le bobine se c'è armonia.
«Col montatore americano non m'intendevo. Con quello francese è andato tutto bene».
Ma nel suo libro lei elogia i tecnici americani.
«Però mi mancava anche la cultura del mio Paese».
Ovvero?
«Gli americani sono fagocitati dagli avvocati».
Si sapeva.
«Solo ora ho capito John Le Carré quando dice: “Gli americani sono russi coi calzoni stirati”».
La Louisiana ha un clima sub-tropicale.
«In effetti si passava dai quarantadue gradi della mattina ai trentotto della sera».
Nel film si accenna all’uragano Katryna?
«Si vede New Orleans prima e dopo. Non è un film turistico».
Ricordando quei giorni, però, i suoi occhi sorridono.
«In tanti si sono occupati di me con grande senso di ospitalità».
E poi la Louisiana ha le sue specialità.
«Come il Po' Boys (poveri ragazzi): due fette di pane con ostriche fritte, insalata, maionese... Mangiarlo è uno sport, tanto è difficile farlo senza macchiarsi».
L’America del suo libro è invece solo quella del cinema.
«Ho inserito per esempio una testimonianza del figlio sul regista Delmer Daves, autore di Quel treno per Yuma».
Che cosa dice?
«Che il padre, avuto un infarto tenuto segreto, non poteva più girare western, troppo faticosi, e passò alle commedie».
Nel libro ci sono anche nomi nuovi.
«Ho intervistato Quentin Tarantino, Joe Dante e Alexander Payne, registi cinefili».
Payne...
«... è stato influenzato da Mario Monicelli: il suo Election, con Reese Witherspoon, riprende la musica dei Soliti ignoti».


I francesi trascurano giustamente il cinema italiano di oggi.
«Ma evocano quello di una volta. Francis Huster ha rifatto Umberto D. di Vittorio De Sica con Jean-Paul Belmondo, dall'eterna tintarella: il più abbronzato dei pensionati!».

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