L’INTERVISTA LAWRENCE FERLINGHETTI

da Roma

Il dio dei poeti maledetti deve essere un bel burlone. Prendi uno come Lawrence Ferlinghetti, che ha diviso tavolino e avventure con le migliori menti della sua generazione, ormai distrutte da droga e devouring time. A novantun’anni sale tranquillamente due rampe di scale, poi si siede in un salotto dell'Accademia Americana di Roma meno affannato del cronista.
Ferlinghetti è il venerato maestro della beat generation, il suo A Coney Island of the mind è un classico dei classici, la sua casa editrice, la City Lights, pubblicò con scandalo Howl di Allen Ginsberg, ed è da decenni il nocciolo duro della controcultura americana. Anarchico pacifista, comunista sentimentale, francese da parte di madre e italiano da parte di padre, poeta e pittore, Ferlinghetti è un testimone del tempo che ha sostituito il furore con l’ironia. La nube islandese l’ha fatto atterrare a Roma pochi giorni dopo la fine di una notevole mostra su di lui: Lawrence Ferlinghetti. 60 anni di pittura, che dal 5 maggio riapre a Reggio Calabria, a cura di Giada Diano, Elettra Carella Pignatelli ed Elisa Polimeni. Mentre si siede racconta di quando a Parigi vedeva Sartre e la De Beauvoir al tavolo di un caffè: «Ero uno studentello e mi vergognavo anche solo ad avvicinarmi. Sartre era impenetrabile, aveva gli occhiali a fondo di bottiglia, la nuvola di fumo di sigaretta davanti. La De Beauvoir invece osservava tutto come un cane da guardia».
Ci sono molte figure femminili nelle sue tele. Cosa sono le donne per lei: dee o bipedi in tutto simili ai maschi?
«Mi piacerebbe pensare che la donna fosse una dea, ma con la faccenda della mela ha dato origine alla storia. Come molti uomini sono ambivalente. La maggior parte del femminismo postmoderno ha buttato giù le donne dal loro piedistallo di dee - si volta verso Giada Diano e indica i suoi jeans -. Comunque sulla tela non voglio raffigurare dee, ma bellezza».
Ha detto di non appartenere completamente al movimento beatnik. Perché?
«Io ero l’ultimo dei bohémien, quando arrivai da Parigi a San Francisco nel 1951 gli artisti “irregolari” si chiamavano così, allora nessuno aveva mai sentito parlare della beat generation. E poi la mia poesia non è quella di Ginsberg. Lui e Kerouac partivano dalla prima frase che veniva loro in testa, usavano la massima buddista: il primo inizio è il migliore inizio. Per me spesso il primo inizio è il peggiore. I beatnik imitavano la scrittura automatica dei surrealisti. Ma io non volevo correre il rischio di scrivere una frase come “vorrei violentare mia nonna”, o roba del genere».
Ma quest’approccio spontaneo è anche quello dei musicisti jazz...
«Sì, ma loro partono da un tema, una melodia che è diventata un classico. Bisogna conoscere le cose prima di iniziare. Mio nipote suona la batteria, ma non vuole imparare a leggere la musica. Non mi pare una gran cosa».
Cosa ne pensa dei movimenti d’arte e poesia che producono anche teoria e critica?
«Penso che se un artista è anche critico dovrebbe usare le sue capacità innanzitutto contro se stesso, per criticare la sua opera, come un nemico. Per esempio il Futurismo, che ha prodotto tanti manifesti e tanta teoria, non mi è mai piaciuto. Kerouac, Ginsberg e tutti i poeti beat non hanno scritto una riga di critica. Se andavi a un reading di poesia beat non c’era nemmeno un’introduzione. Ora in molti reading ci sono dieci minuti di introduzione per due minuti di poesia. È ridicolo: la bellezza non ha bisogno di essere spiegata».
Lei è un liberal, da sempre pacifista e di sinistra.

Cosa ne pensa di Obama?
«Penso che abbiamo bisogno di un altro tipo di sistema economico e politico, un socialismo umanistico, e che i leader mondiali non possano fare un bel niente per cambiare le cose, compreso Obama. Solo perché ha la pelle nera molti pensano che sia un rivoluzionario. Ma non è un rivoluzionario, è un membro della bourgeoisie nera, un centrista perfetto. Ma lo amiamo lo stesso, al contrario di Bush».

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