L’invasione del Kuwait l’errore più grande

Pensava di essere il nuovo Saladino del mondo arabo e osò sfidare gli Stati Uniti

Sulla soglia dell’hotel «Rashid» aveva fatto collocare un mosaico che raffigurava il volto di Bush senior, il presidente che lo aveva fatto sloggiare dal Kuwait 15 anni fa. Era la sua bestia nera, il nemico che con quella guerra, e gli anni di embargo che ne erano seguiti, aveva messo in ginocchio l’Irak e inflitto un colpo di maglio a un regime che si sapeva ormai avviato sulla strada del tramonto. Così, ogni volta che si entrava o si usciva da quell’albergo, dove transitavano giornalisti, uomini d’affari, politici, pacifisti d’ogni colore, mediatori e spie, si era obbligati a calpestare il volto del satana americano.
Il braccio di ferro con Washington è durato 12 anni: dal 1991, quando le truppe del generale Schwarzkopf fecero piazza pulita dell’armata irachena che aveva invaso il Kuwait, fino al 9 aprile del 2003, quando i marines entrarono vittoriosi a Bagdad. E la statua del raìs che troneggiava in piazza del Paradiso non cadde rovinosamente a faccia in giù.
Eppure, secondo molti osservatori occidentali, una composizione di quella guerra fredda imposta dagli americani e dagli inglesi al regime di Saddam sarebbe stata anche possibile, se solo il raìs non si fosse messo in testa di essere lui il nuovo Saladino del mondo arabo. A perderlo, più che un errore di strategia e di visione politica, è stata la sua sanguinaria megalomania; l’incapacità di vedere che senza una sostanziale ricucitura con Washington, a costo di ingoiare qualche boccone amaro (aprendo da subito le porte del Paese agli ispettori internazionali che per anni cercarono infruttuosamente (perché non c’erano) arsenali chimici e batteriologici, la fine del suo regime era segnata. Ci voleva un pretesto. E gli americani lo trovarono nell’attentato alle Torri gemelle del 2001. Fu allora, sulle ali di quella «guerra preventiva» voluta da George Bush, che la sabbia nella clessidra prese a correre.
Musulmano di confessione sunnita, Saddam aveva imposto il suo potere, quello del suo clan e della sua gens a un Paese che avrebbe potuto prosperare in pace, issandosi sulla montagna di barili di greggio che aveva (e ancora ha) nel sottosuolo, e che invece ha dovuto sobbarcarsi anni di guerre, di tragedie, di sangue, di privazioni. Il primo errore (ma quella volta furono gli americani a incoraggiarlo, fornendogli quegli arsenali che anni dopo gli avrebbero rinfacciato di possedere) fu la guerra contro l’Iran, nel 1980. È nel marzo di quell’ultimo anno di guerra che il regime del raìs si macchia di uno dei suoi più atroci crimini. Per punire i curdi iracheni che avevano fornito appoggio all’Iran, scatta l’operazione «Anfal», in seguito alla quale la città di Halabija viene bombardata con armi chimiche. I morti sono cinquemila.
Sarà per rimpinguare le casse di un Paese stremato dagli anni di guerra con l’Iran di Khomeini che Saddam tenterà la carta del Kuwait. Ingoiare lo staterello dello sceicco Al Sabah, al confine meridionale, gonfio di petrolio, sembra un gioco da ragazzi, a Saddam. Lo è, difatti. Ma anche stavolta sbaglia i suoi calcoli. L’Occidente, che secondo i suoi piani avrebbe finito per abbozzare, mette in piedi una invincibile armata, che in poco più di un mese sbaraglia la macchina da guerra irachena.
Un altro, al suo posto, avrebbe capito l’antifona. Avrebbe cercato un accomodamento, studiando il modo di salvare la faccia. Lui invece scelse lo scontro frontale, tenendo duro fino alla fine. Anche con i marines alle porte.
I capi di imputazione contro il padrone di Bagdad erano virtualmente infiniti, visto che in una Norimberga contro di lui e gli uomini del suo regime si sarebbero potuti istruire migliaia di casi personali. Ma i grandi capi d’accusa che pendevano sulla sua testa non gli avrebbero concesso scampo. Durante i 24 anni della sua dittatura egli ha illegalmente imprigionato, torturato, fatto uccidere o sparire almeno 300mila dissidenti. A riprova delle atrocità commesse, ci sono le decine di fosse comuni trovate dalle forze della coalizione.
Negli anni della sua satrapia Saddam ha sistematicamente perseguitato le etnie e i gruppi tribali che potevano insidiare il suo potere o quello della maggioranza sunnita su cui era impalcato il regime. La campagna contro i curdi del 1988 non fu la sola. Dall’atroce libro dei ricordi iracheno sarebbero emersi i 50mila morti di origine iraniana sterminati nel nord del Paese e i 30mila fra curdi e sciiti che cercarono di ribellarsi al suo potere dopo la prima Guerra del Golfo e finirono (dopo essere stati abbandonati dagli alleati) sotto i colpi della Guardia repubblicana. Giustizia chiedevano anche i familiari dei kuwaitiani uccisi durante l’invasione del ’90 e gli oltre 600 «desaparecidos» arrestati e mai più tornati nel piccolo emirato.


Quel che gli americani non avevano messo nel conto era il finale di partita: il terrorismo scatenato dai sunniti contro le forze di occupazione, che dopo la morte del raìs (simbolo della resistenza contro l’odiato straniero) potrebbe tornare a divampare. E la guerra civile tra sciiti e sunniti, che non si chiuderà se non con una spartizione del Paese.

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