Politica

L’inviato speciale fra i Grandi malati «Condannavano a morte per vivere»

Più che dagli inglesi e dai prussiani, Napoleone fu sconfitto a Waterloo dalle emorroidi. Beethoven morì sordo ma soprattutto ubriaco. Stalin era affetto da psicosi paranoica e i medici Levin e Pletnev, che nel 1937 gliela diagnosticarono, trascorsero i successivi 25 anni in un gulag. A ringraziare Dio, o il fato: la condanna originaria, commutata in carcere duro, era alla pena capitale. Non andò meglio, nel gennaio 1953, ai loro colleghi che curavano il sanguinario dittatore ormai in preda a marasma mentale: furono accusati di un complotto teso «ad accorciare la vita di noti dirigenti dell’Urss, praticando loro trattamenti nocivi». Il processo, che nelle intenzioni di Stalin avrebbe dovuto concludersi non con la fucilazione – troppo compassionevole – bensì con l’impiccagione degli imputati, fu provvidenzialmente interrotto, il 5 marzo, dal decesso del paranoico.
È da allora, anzi addirittura da prima, dal 1952 – quando fu iscritto ai due Ordini che a 81 anni continua a servire con uguale dedizione, quello dei medici e quello dei giornalisti – che Luciano Sterpellone fa l’inviato speciale nelle malattie. Ovvio che il sensorio vigile del cronista si rianimi ogni qualvolta l’occhio clinico del medico incrocia un paziente illustre. Ecco spiegato perché l’ultimo dei 120 libri che Sterpellone ha scritto nel corso della sua carriera s’intitoli Famosi e malati e abbia in copertina un ritratto del Bonaparte con la mano destra infilata nella marsina a proteggersi la pancia (un classico dell’iconografia napoleonica) e un termometro a mercurio infilato in bocca (una licenza poetica dell’editrice Sei).
Per crudele contrappasso, al giornalista di medicina più famoso d’Italia non poteva che capitare una complicatissima affezione al dotto di Stenone: «Una mattina di due anni fa, mentre mi stavo radendo, ho notato allo specchio un gonfiore sospetto nella guancia destra. Dopo lunghi accertamenti, mi hanno scoperto un calcolo nel dotto escretore che porta la saliva dalla parotide alla bocca. Come tutti i medici, ero terrorizzato all’idea di finire sotto i ferri. Dieci ore d’intervento chirurgico. Purtroppo in questa zona passano il nervo facciale, il tratto terminale dell’arteria carotide esterna e il nervo auricolotemporale... Non è stata una passeggiata».
Già specialista in patologia clinica alla Sapienza di Roma, autore di una Storia della medicina in dieci volumi, ospite fisso per 28 anni di fortunate trasmissioni radiofoniche e televisive (Dottore buonasera, S come salute, Check up), collaboratore di quotidiani e della rivista Kos edita dal San Raffaele di Milano, Sterpellone ha passato in corsia solo tre lustri della sua lunga vita e poi s’è interamente dedicato alla divulgazione scientifica. Con una serietà riconosciuta persino da Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali nazisti che aveva assicurato alla giustizia, fra gli altri, Adolf Eichmann, l’ideatore della «Soluzione finale», e Karl Silberbauer, l’ufficiale della Gestapo responsabile dell’arresto di Anna Frank. «Nel 1978 esaminò per due mesi nel suo ufficio di Vienna il mio libro Le cavie dei lager, che l’editore Mursia si apprestava a pubblicare. Alla fine Wiesenthal non solo consentì a stendere la prefazione, ma decise, bontà sua, che io ero la persona giusta cui affidare la documentazione relativa ai folli esperimenti compiuti sugli ebrei nel campo di concentramento di Ravensbruck, dove per testare l’efficacia dei sulfamidici si praticavano ai prigionieri incisioni lunghe otto centimetri nelle quali venivano inoculati batteri infettivi e pus oppure piantati pezzi di ferro e di legno per riprodurre le ferite riportate dai soldati al fronte».
Quando ha cominciato a occuparsi della salute dei Vip?
«Nel 1948. Ero a Vienna per uno stage in patologia all’Allgemeines Krankenhaus, l’ospedale generale. Siccome amo la musica classica, mi ricordai che lì il 21 marzo 1827 era deceduto Beethoven e mi saltò in mente di chiedere la sua cartella clinica. Dopo una decina di minuti mi fu consegnata».
Non ci credo. Sono due mesi che aspetto di avere la cartella di un mio ricovero in day hospital avvenuto nel 2003.
«Giuro. Erano una decina di fogli, scritti con grafia minuta, dai quali si evinceva che il grande compositore era stato ucciso a soli 57 anni da una cirrosi epatica e che l’autopsia aveva dimostrato un eccesso di consumo d’alcol. Nella Vienna postbellica, divisa in quattro parti dagli Alleati, cercai invano anche le orecchie di Beethoven, che nel referto autoptico risultavano enucleate dalla testa da un certo dottor Wagner, ironia della sorte, e messe sotto formalina. Ma non le trovai. Erano andate perse sotto i bombardamenti».
Nelle biografie dei personaggi famosi raramente si fa cenno alle loro malattie.
«Vero. Eppure Sigmund Freud sosteneva che una biografia è monca se non contiene riferimenti alle abitudini sessuali. Direi la stessa cosa per la salute. Il fatto che uno psicanalista, quindi un medico, abbia continuato a fumare dopo aver subìto 23 interventi demolitivi per un cancro alla bocca – sto parlando di Freud – meriterebbe qualche investigazione in chiave psicanalitica. Gli fu asportata la metà del palato duro, ma fino all’ultimo non rinunciò mai a sigari e sigarette».
Le malattie cambiano il corso della storia?
«Eccome. Vittorioso nella prima fase della battaglia di Waterloo, Napoleone fu costretto verso sera a rintanarsi nella sua tenda in preda a una violenta crisi emorroidaria. I medici tentarono invano di alleviare l’infiammazione applicandogli acetato di piombo sulla zona congesta e turgida. Alla fine il dolore era così forte che l’imperatore fu imbottito di laudano, un oppiaceo che gli fece perdere la lucidità. Se Napoleone fosse stato presente a se stesso, gli esiti della battaglia potevano essere diversi».
Per restare nelle retrovie, la proctologia un secolo prima aveva giocato un ruolo decisivo anche nelle vicende del Re Sole.
«Al punto tale che alcuni storici suddividono il regno di Luigi XIV in due periodi, avant la fistule e après la fistule, tanto ne era condizionato. Non per nulla la riuscita dell’operazione fu salutata con inni, lodi e poesie. Il chirurgo di corte, François Felix De Tassy, inventò per l’occasione un bisturi speciale, detto à la royale. Prima d’usarlo sulla fistola anale dell’augusto infermo, si fece la mano su non meno di 300 sventurati all’ospedale della Salpêtrière di Parigi».
Gli esperimenti sulle cavie umane cominciarono ben prima di Joseph Mengele.
«Già. Quando Enrico II, re di Francia, fu gravemente ferito a un occhio durante una giostra cavalleresca organizzata nel 1559 per le nozze della figlia, i medici fecero decapitare all’istante quattro galeotti reclusi a Le Châtelet in modo da poter simulare la lesione inferta al sovrano. Che nonostante l’inutile mattanza morì di lì a dieci giorni a soli 40 anni per quella che oggi definiremmo meningoencefalite traumatica. Fra i carnefici figurava peraltro il grande Ambroise Paré, il più famoso barbiere-chirurgo del tempo, il quale prima delle operazioni addormentava i pazienti a cazzotti, visto che l’anestesia generale sarebbe arrivata solo quattro secoli dopo».
Insomma, la medicina è sempre progredita a spese di qualcuno.
«Certo. Il celebre clinico londinese Richard Mead nel 1721 inoculò il pus vaioloso a sette condannati a morte rinchiusi nel carcere di Newgate. Era stata lady Mary Wortley Montagu, moglie di un diplomatico inglese a Costantinopoli, a raccontare a corte che in Oriente si proteggevano dalla terribile malattia inalando o innestando la polvere ottenuta dalle pustole essiccate dei malati di vaiolo. Solo dopo aver provato sui morituri la variolazione, o vaiolazione, il futuro re Giorgio II acconsentì a far immunizzare anche le proprie figlie».
Degli importanti pazienti su cui ha indagato, il più paziente di tutti chi fu?
«Il filosofo Friedrich Nietzsche. Nella cui anamnesi ho rintracciato violenti dolori al capo e agli occhi fin da bambino, sifilide contratta in un bordello in giovane età, difterite, dissenteria, epatite infettiva, insonnia, esaurimento fisico, depressione e paralisi progressiva, oggi chiamata demenza paralitica, una conseguenza diretta della lue. Credeva d’essere la reincarnazione ora di Voltaire, ora di Napoleone, ora di Wagner. La sua follia esplose a Torino. In piazza Carlo Alberto abbracciò un cavallo urlandogli: “Amico mio, non soffrire”. A 56 anni il fautore del mito del Superuomo, inchiodato a una carrozzella e incapace di qualsiasi ragionamento, fu ucciso da una polmonite».
Quello curato meglio?
«Forse fu il pianista George Gershwin. Per un ascesso cerebrale venne operato in modo corretto e tempestivo, addirittura via radio, dal miglior neurochirurgo del tempo. Ma fu tutto inutile: il classico caso della serie “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”».
Quello curato peggio?
«Quanto tempo ha da dedicarmi? Franz Kafka: siamo già nel 1924, ma per la sua tubercolosi laringea i dottori prescrivono allo scrittore un ciclo di bagni freddi nel Danubio. Aleksandr Borodin: si può dire che non sia stato neppure curato perché, quando nel 1887, colpito da ictus cerebrale, il musicista russo cadde improvvisamente a terra durante il ballo mascherato all’Accademia di Pietroburgo, i medici presenti credettero che si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi. Piotr Ilich Chajkovskij: dopo aver bevuto l’acqua infetta della Neva, l’autore del Lago dei cigni e dello Schiaccianoci si prese il colera, ma, nonostante fosse subentrata un’insufficienza renale acuta, i clinici insistettero a curarlo con bagni caldi».
Di quali altre cure dissennate ha trovato traccia?
«La cefalea cronica di Martin Lutero veniva contrastata con un miscuglio di vermi cotti e midollo di cervo. Lorenzo il Magnifico, afflitto dalla gotta come tutta la famiglia dei Medici, fu messo dai parenti nelle mani del medico personale del duca di Milano, Lazzaro da Pavia, un luminare. Il quale cominciò una terapia a base di polvere di diamanti, smeraldi, topazi, rubini e altri minerali, convinto che contenessero un miracoloso “succo petrifico”. L’assunto era il seguente: se le particelle delle pietre stanno insieme, deve esserci una sostanza che lega gli elementi fra loro, quindi quella stessa sostanza terrà insieme anche il corpo umano. Risultato: a 42 anni il signore di Firenze era già morto».
Se crepavano in questo modo i potenti, figurarsi i poveracci...
«Per più di mille anni, fino al Settecento, uno dei farmaci più usati è stato la mumia, cioè la resina che filtrava dalle sepolture degli antichi egizi. Sempre in base a un assunto insensato: se i faraoni, benché morti, sono arrivati intatti fino ai nostri giorni sotto forma di mummie, questa colatura dovrà pur avere qualche beneficio anche sui vivi. Fu imbastita una truffa mondiale su questa assurda terapia, con sostanze catramose spacciate per mumia».
Chi fu il più stoico nel dedicarsi alle sue normali occupazioni nonostante una grave infermità?
«Giacomo Puccini. Il tumore alla laringe non gli impedì di continuare nella stesura della Turandot. Il male ebbe il sopravvento proprio mentre il compositore stava lavorando all’“aria della morte” di Liù. Donde il sommesso omaggio del maestro Arturo Toscanini, che nella prima rappresentazione alla Scala, il 25 aprile 1926, dopo la morte di Liù posò la bacchetta, si voltò verso il pubblico e mormorò: “Qui finisce l’opera perché a questo punto il maestro è morto”. Non meno coraggiosa Eleonora Duse, affetta da tubercolosi polmonare, che nonostante la diagnosi impietosa del medico si alzò dal letto, chiese ragguagli sulle prove della Denise di Dumas figlio e concluse: “Riprendiamo domani. Quanto a morire, morirò dopo”. Andò in palcoscenico fino all’ultimo ansimante e piegata dalla tosse».
I Papi erano curati meglio dei re?
«Non direi. Siccome Pio XII, affetto da ipertrofia prostatica, aveva notevoli problemi di minzione, prima gli furono somministrati non meglio precisati “decongestionanti venosi” e magnesio, poi gli venne imposta una misteriosa “dieta biogenica”, quindi si passò all’omeopatia e un medico svizzero, Paul Niehans, gli praticò una cervellotica cura di “cellule vive animali”. Fino a quando Papa Pacelli non si decise a reclutare due ottimi clinici, che scelse di persona fra quelli “di sicura fede monarchica”».
Ma poi il suo archiatra, il professor Riccardo Galeazzi Lisi, vendette a un rotocalco le foto della salma del Pontefice.
«Ben poca cosa rispetto alla sorte riservata nel 1824 al cadavere di Lord Byron, che per essere traslato dalla Grecia all’Inghilterra via mare fu immerso in un barile d’alcol, visto che all’epoca non esistevano certo le celle frigorifere. Giunto al porto di destinazione, il comandante del brigantino consegnò la salma alle autorità e vendette per una ghinea alla pinta l’alcol in cui era stata conservata».
Paolo VI per la sua prostata preferì ricorrere al bisturi.
«Primo caso di un Papa a sottoporsi alla resezione chirurgica. Invece Charles De Gaulle trovò sollievo in un catetere a permanenza che consentiva lo svuotamento della vescica. Il miglioramento fu tale che il generale chiese di potersi congratulare con l’inventore. Quando gli spiegarono che era un americano, ebbe un impeto sciovinista e pretese che la cannula fosse subito rimossa. In seguito, su pressione dei medici, accettò di servirsene a condizione che sulla vicenda calasse il segreto di Stato».
Le malattie hanno influenzato l’arte?
«Senz’altro. Si pensi soltanto alla descrizione poetica che Charles Baudelaire, non sapendo d’essere stato colpito da un attacco ischemico transitorio, fece di quello che ai giorni nostri con un acronimo inglese chiamiamo Tia: “Oggi ho avuto un singolare avvertimento: ho sentito passare su di me un soffio d’imbecillità”».
Grandioso.
«La feconda malinconia di Giacomo Leopardi non avrebbe toccato le vette sublimi che conosciamo se egli non fosse stato colpito dal morbo di Pott, la tubercolosi delle vertebre che provocò la comparsa di due gobbe, una sulla schiena e una sul torace, e lo isolò dal mondo, lasciandogli l’unica consolazione della poesia. Così come il giallo nelle tele di Vincent van Gogh era dovuto a xantopsia, un’abnorme visione degli oggetti, che appaiono con una dominante di questo colore. A provocarla era un’intossicazione da digitale, somministrata al pittore olandese contro l’epilessia. Infatti nel Ritratto del dottor Gachet, venduto all’asta nel 1990 per 82,5 milioni di dollari, persino il medico curante di van Gogh ha la faccia gialla. Accanto, sul tavolo, una pianta di Digitalis purpurea, dalle cui foglie si ricava la digitale».
Grandi tossicomani ve ne furono?
«Un’infinità: Henri de Toulouse-Lautrec, Oscar Wilde, Adolf Hitler, Hermann Göring, Marilyn Monroe, Edith Piaf, Rock Hudson, Sammy Davis. Furono trovate tracce di hashish persino nelle pipe che fumava William Shakespeare».
Che cosa pensa dei medici d’oggi?
«C’è una diatriba sul loro eccesso di specializzazione a scapito d’una visione d’insieme del paziente. Io trovo invece che i trentenni abbiano una preparazione superiore a quella che avevamo noi alla loro età. Se un medico trentenne si fosse addormentato nel 1930 e si fosse ridestato nel 1960, al risveglio avrebbe saputo più o meno tutto quello che c’era da sapere. Oggi un medico che smette per tre anni e mezzo d’aggiornarsi perde la metà del suo sapere, quindi del suo valore».
Pensa che la malattia abbia un significato finalistico?
«No. Però t’insegna qualcosa. Finché non ho avuto questo guaio al dotto di Stenone, credevo d’essere eterno».
Nella sua esperienza di medico c’è un malato «normale» che le è rimasto impresso nella memoria?
«Un vecchio generale. La prima volta che entrai nella sua camera m’investì con una caterva di contumelie. Ci rimasi molto male. Poi seppi che era affetto dalla sindrome di Gilles de la Tourette, detta anche morbo della parolaccia, una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale che si esprime fra l’altro col turpiloquio. Sino alla morte, a ogni mia visita, continuò a ricoprirmi d’insulti irripetibili. Ma gli ho voluto bene lo stesso».
(323. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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