Politica

L’ISOLA DEI FAZIOSI

Dobbiamo chiedere qualcosa al servizio pubblico televisivo o una domanda in tal senso è illecita? Il Celentano predicatore, L’isola dei famosi sono assimilabili alla televisione intesa come servizio pubblico? Se Celentano o L’isola dei famosi fossero trasmessi da una rete regionale, avrebbero meno risonanza soltanto perché c’è meno gente che li guarda? La loro deflagrante irruzione nel nostro mondo politico e sociale non dipende invece dal fatto che sono le due più importanti reti nazionali pubbliche a farceli vedere? L’autorevolezza della Rai non dipende dal fatto che è servizio pubblico, che è nata come servizio e che tutti i suoi apparati di gestione e di controllo sono eletti, formati e garantiti in nome del servizio pubblico?
Se si riuscisse a dare una risposta ragionevole a queste domande, e ai loro evidenti corollari, sarebbe comprensibile il motivo per cui si fanno programmi come quello di Celentano o dell’Isola dei famosi, che sono facce della stessa medaglia.
Dopo esserci irritati e disgustati guardando quelle trasmissioni, con un po’ di calma comprendiamo che ormai, proprio per il fatto che la Rai ci fa vedere in prima serata L’isola dei famosi il mercoledì e Celentano il giovedì, non c’è più spazio per un servizio pubblico. E senza dolersi del presente, rimpiangendo il tempo passato, non è neppure difficile capire il perché.
Personalmente sono sempre stato convinto che una televisione pubblica fosse fondamentale proprio per amministrare con razionalità e buon gusto il suo immenso potere comunicativo sul piano politico, su quello della formazione e del consenso, dei comportamenti, del linguaggio. Ma un servizio pubblico che assolva a una funzione (diciamolo francamente e senza ipocrisia) pedagogica e culturale oggi è impossibile. Questo era possibile quando c’era scarsità del mezzo, poca emittenza televisiva.
Ma se, come accade oggi, il prodotto televisivo non è più scarso, anzi il suo sviluppo è sempre più intenso, cadono le ragioni essenziali per cui la televisione era stata gestita con il criterio del servizio pubblico. L’aumento dei soggetti e dell’offerta televisiva modifica inevitabilmente la programmazione. Si entra in un regime di concorrenza, e la concorrenza apre una contraddizione non risolvibile con l’idea di televisione intesa come servizio pubblico.
La scarsa presenza di televisione (si pensi, appunto, agli anni Sessanta, Settanta) consente di puntare a un prodotto di eccellenza, di democraticità dell’informazione attraverso l’accesso pluralistico all’emittente. Dagli anni Ottanta, prima lentamente, poi in questi tempi sempre più vorticosamente, c’è un’inversione di tendenza: si pensi soltanto a come l’innovazione tecnologica abbia contribuito ad alzare il numero delle reti. Il mercato impone i principi della concorrenza che, detto in modo semplice, significa: se non riesci a farti notare, sparisci.
Ecco allora la radicalizzazione della contrapposizione. Se si è fedeli alle idee che dovrebbero regolare il servizio pubblico televisivo, si finisce per essere conformisti e sonnolenti. Il rispetto del buon gusto, della qualità culturale, del pluralismo delle opinioni politiche non regge alla concorrenza che pretende trasgressività, provocazione, violenza verbale e anche fisica per catturare il pubblico. E il pubblico potrà anche disgustarsi o irritarsi per lo spettacolo che gli è propinato, ma comunque rimane incuriosito, umanamente curioso di vedere come va a finire. Per solleticarlo si cercheranno sempre nuove e più efficaci provocazioni, e così si servono per il dopocena Celentano e la Ventura e non Tribuna politica e La cittadella.
Dunque, è a causa di un fenomeno strutturale, cioè il numero sempre più elevato di reti e di emittenti, che il servizio pubblico televisivo purtroppo è morto e sepolto. A rendere ancora più malinconica e fastidiosa la sua dipartita, alla causa strutturale se ne aggiunge una contingente. Non c’è equilibrio culturale dentro la Rai, e il motivo è semplice. I giornalisti, gli autori, i programmatori appartengono, pur a vario titolo, al ceto intellettuale che, storicamente, è di sinistra e che, sempre storicamente, è dominante, possiede un lungo allenamento e un’acquisita disinvoltura nel demonizzare «l’altro», nell’interdirlo, nel reprimerlo moralmente.
Non si può tornare indietro: non riavremo più il servizio pubblico televisivo.

Però si potrebbe formare e intanto valorizzare un personale televisivo che, sia sul piano manageriale che giornalistico, sia in grado di riequilibrare quello oggi esistente nella Rai.

Commenti