L’Italia assente nelle istituzioni Ue

Gustavo Selva

Confesso con sincerità di sentirmi ormai quasi come un «prete spretato» per quanto riguarda la fede in «questa Europa»; dopo l’esito dei due referendum sulla Costituzione europea in Francia e in Olanda, per prima cosa c’è da cambiare la politica economica e sociale senza l’inutile demagogia del ritorno alla lira: l’unico vero risultato politico della comunità passata da sei a quindici Paesi resta quello di avere bandito per sempre la guerra fra noi europei e di godere della pace da 60 anni essendo partiti dal punto più basso; gli europei infatti scatenarono la prima e la seconda guerra mondiale. Abbiamo invece perso per ora la battaglia della globalizzazione dei diritti, compreso quello che l’Onu ha come primo obiettivo, cioè prevenire e combattere le cause che possono scatenare le guerre. Il sogno di un’Europa unita a 25, poi forse a 30, da speranza si sta trasformando nell’incubo di un conflitto sempre più forte fra le istituzioni comunitarie e la volontà politica dei popoli europei.
L’Italia si trova in una delle più difficili condizioni. I governi della Prima Repubblica hanno soprattutto esaltato la retorica dell’alleanza politica economica e sociale dell’Unione europea, in particolare per il rapporto con la Germania e con la Francia, che hanno sempre molto badato ai loro interessi nazionali. Nella retorica dell’«Europa politica del futuro», la Prima e anche la Seconda Repubblica con i governi di centrosinistra hanno fatto il contrario dei francesi e i tedeschi e soprattutto degli inglesi: privilegiare la politica comunitaria rispetto alla difesa degli interessi nazionali. Non dico che questa linea non ci abbia dato vantaggi, dico però che ora non dobbiamo più parlare di «unità» comunitaria senza prima difendere la «diversità» degli interessi e degli stessi «valori nazionali» specialmente in economia.
In questo quadro voglio ora parlare della presenza italiana nelle istituzioni comunitarie: si vedrà che noi siamo i più fragili nelle istituzioni comunitarie di Bruxelles e Strasburgo. Lo siamo nel campo politico. L’Italia per due sole volte ha avuto il Presidente della Commissione. La prima con il democristiano Franco Maria Malfatti di cui mi dispiace dire, anche perché non è più fra di noi, che lasciò, dopo appena due anni, questo posto-chiave (che il Lussemburgo ha ricoperto tre volte!) per la paura che gli «amici» gli soffiassero il seggio parlamentare in Umbria che aveva dovuto lasciare. Il secondo è stato, fino a pochi mesi fa, Romano Prodi, leader dell’Ulivo che andò a Bruxelles nel 1999 con lo spirito di continuare a fare politica italiana. Quale sia questo spirito lo abbiamo visto e lo vediamo: stare più a sinistra con Fassino e con Bertinotti che al centro con Rutelli, come del resto stava da Presidente della Commissione più con la Francia di Chirac e la Germania di Schroeder, quando si trattava di assolverle per il superamento del 3 per cento, ed era invece contro Berlusconi e il suo governo, quando si trattava magari di aiutarlo a modificare il condizionamento del 3 per cento ormai criticato da quasi tutti in difesa degli interessi nazionali.
Anche nel Parlamento europeo l'Italia si qualifica soprattutto per il suo assenteismo. Dal 1979, da quando cioè il Parlamento europeo viene eletto dal popolo, noi non abbiamo mai avuto, né con la Prima né con la Seconda Repubblica, il Presidente. Con i funzionari e i diplomatici non facciamo molto meglio. Nella Commissione non abbiamo alcun direttore generale e pochissimi alti funzionari in posti importanti: idem nel segretariato del Consiglio dei ministri e del Parlamento europeo. Ma spendiamo una parola sulla nostra Rappresentanza permanente, che è in sostanza un ministero. La diplomazia ha avuto un eccellente inizio, la politica è stata sempre dipendente dai diplomatici e dai tecnici, ma i ministri e i sottosegretari salvo due, Colombo e Andreotti, e un ministro dell’agricoltura come Marcora cambiavano troppo spesso. Chi ha capito meglio l’importanza della Comunità è stato il centrosinistra che ha allevato con «Farnesina democratica» e la Cgil un gruppo di diplomatici e funzionari che guidano anche oggi la burocrazia di Bruxelles che accetta con la ragione le direttive di Berlusconi, Frattini e Fini, ma che con la mente politica sta con Prodi, Fassino, D’Alema, Enrico Letta, Bersani. Forse c’è solo De Michelis che li può portare su una linea non solo ancorata alla Francia e alla Germania di Chirac e di Schroeder. La maggiore speranza che può avere la linea di centrodestra è che cambi la politica euroamericana della Germania con la vittoria della Cdu-Csu con la «cancelliera» Angela Merkel. Oggi la politica europea, per essere capita dalla gente, deve rilanciare l’economia dei tre più importanti paesi, Germania, Francia e Italia, accomunati in una crisi dovuta anche al dirigismo, al burocraticismo, al potere «massonico» che opera nella finanza europea. Vediamo cosa sanno fare a Bruxelles e a Roma i nostri eurocrati guidati da Berlusconi, Fini, Siniscalco, La Malfa.

Anche Frattini ha la sua parte importante, pur non avendo un portafoglio economico.

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