L’Italia, un Paese per mummie E pure lamentose

Parafrasando il titolo del famoso romanzo/film, questo non è Paese per Ciampi... «Non è il Paese che sognavo» è infatti il titolo dell’ultimo libro di Carlo Azeglio Ciampi, libro da evitare accuratamente per chi abbia realmente a cuore le sorti dell’Italia, per tutti le persone positive e costruttive e soprattutto per i giovani. Un uomo che è stato per cinquant’anni alla guida (in vari ruoli e cariche) di questo Paese e che ha contribuito ampiamente a formarlo o a «deformarlo», adesso lo «schifa»... Ah, quanto appaiono meschini, tristi e patetici i vecchi che non si arrendono al loro declino e considerano decadente tutto ciò che sta decadendo con loro.
Roma

E perché, Oscar Luigi Scalfaro dove me lo mette, gentile lettrice? Ancora ieri è tornato ad arricciare il naso manifestando la sua ripugnanza per lo stato di quell’Italia che per mezzo secolo e oltre ha, se così possiamo dire, servito. Male, stando alle sue stesse parole. Molto male, anzi. Bella faccia tosta quella di Scalfaro, di Ciampi e di altri dinosauri della politica: potremo definirla una senile sindrome di Bartali e del suo «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Solo che le cose fatte - e fatte sbagliate - portano la firma dei Ciampi, degli Scalfaro e degli altri dinosauri. E mai un mea culpa, mai che dicessero, almeno: avrei dovuto fare di più. Se gli costa così fatica riconoscere i propri torti e i propri fallimenti, almeno stiano zitti. Si godano le loro più che principesche, imperiali pensioni e tacciano. Oltre ad esser stato governatore della Banca d’Italia, e non è poco, Carlo Azeglio Ciampi fu presidente del Consiglio e ministro del Tesoro, due ruoli fra i più adeguati, forse i più adeguati per fare dell’Italia «il Paese che sognavo». In seguito, nei panni di senatore a vita, lo si ricorda solo come battistrada del manipolo di suoi pari corsi in soccorso dello sgangheratissimo e ormai comatoso governo Prodi, consentendo così che una ferita sul corpo della nazione marcisse ancora quel tanto per diventare cancrena. Di Oscar Luigi Scalfaro, poi, non ne parliamo. Cominciata con una non metaforica condanna a morte, la sua lunghissima, interminabile presenza negli organici istituzionali si è chiusa con il ribaltone col qual fece strame di quella stessa Carta che dice di, piamente, venerare. In mezzo, il «Non ci sto!», il più sorprendente sberleffo a quei princìpi e a quei valori che con ventosa prosopopea sostiene siano in cima ai suoi pensieri e nel profondo del suo animo democratico.
Vedremo in seguito, ma a tutt’oggi tra le virtù che sono mancate alla classe politica dell’Italia repubblicana c’è anche quella di saper cogliere il momento per il passo d’addio. Il Palazzo non sa, perché non vuole, uscire di scena. Ci sono eccezioni, qualcuno ha infatti saputo farlo con eleganza e decoro - mi viene in mente Luigi Einaudi - ma si dà il caso che quei pochi furono semplici inquilini del Palazzo, non condomini. Il voler restare ad oltranza e a piede più o meno fermo alla ribalta, da dove ergersi a coscienze critiche della nazione e seguitare a impartire lezioncine è una incontinenza tutta nostra, non riscontrabile in altri Paesi che non siano le satrapie africane o asiatiche.

Ci si potrebbe anche passar sopra, c’è di peggio, se quei bei tomi, emeriti o meno che siano, non seguitassero a spiegarci per filo, per segno e senza pudore quant’è disgustoso il piatto che loro stessi cucinarono e servirono al Paese.

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