L’Ocse avverte: per risolvere la crisi non serve la «politica del rubamazzo»

José Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse dal 2006, è un vigoroso avversario delle tentazioni protezionistiche che stanno emergendo nel mondo in questo momento di grave crisi. Chiede un ritorno ai valori e alle regole fondamentali della buona economia, e ricorda che non ci si deve solo occupare di banche ma anche degli «effetti terribili» della crisi sulla gente comune. Ci si sta occupando troppo dei banchieri e poco dei cittadini che, in questa tempesta, perdono il lavoro?
«La disoccupazione è una preoccupazione che abbiamo ben in mente tutti - risponde in un italiano molto fluente l’ex ministro delle Finanze e degli Esteri messicano -; con l’andamento negativo dell’economia globale legato alla crisi finanziaria, stanno emergendo gravi problemi per le decine di milioni di persone che hanno perso o stanno per perdere il lavoro. Vorrei ricordare che soltanto nei Paesi dell’Ocse, che sono nazioni industrializzare e ad economia avanzata, ad oggi si sono persi fra gli 8 e i 10 milioni di posti di lavoro, ma se aggiungiamo le economie emergenti come India e Cina raggiungiamo facilmente cifre di 30-40 milioni. Nella sola Cina ci sono 20 milioni di «migranti» fra campagna e città che dovranno tornare ai loro villaggi».
Ma i fenomeni legati alla crisi economica, cali produttivi e disoccupazione, colpiscono anche i Paesi industriali. In particolare, che cosa pensa della situazione in Italia?
«L’Italia è una grande economia, un’economia moderna che oggi mostra segni di sofferenza, come gli altri grandi d’Europa, la Francia e la Germania. Il pacchetto di misure nazionali che è stato approvato dal governo italiano è importante, anche se non può dimenticare che esiste un debito pubblico elevato. Nei principali Paesi europei si sono varati pacchetti da circa l’1,5% del pil. L’Italia è in linea con le altre grandi economie europee. È sufficiente? Non basta? Posso solo dire che sono convinto che sia necessario un coordinamento delle misure anticrisi. Quanto agli Stati Uniti, loro possono spendere di più ma perché perché hanno meno welfare, e dunque una minore spesa sociale».
In questo contesto, vede segnali di protezionismo emergente nelle politiche di alcuni Paesi avanzati?
«Certo, il buy american negli Stati Uniti e il piano francese di aiuti all’auto segnalano che il pericolo è in agguato. Le politiche del beggar-thy-neighbour (letteralmente «rubamazzetto», politiche economiche nazionali che danneggiano i Paesi vicini, ndr) però non giovano, anzi con la nazionalizzazione dell’economia le cose possono peggiorare. Bisogna mantenere le economie aperte ai flussi di investimento internazionali».
L’Ocse da tempo si occupa del quadro regolatorio della finanza internazionale. Condivide l’idea, caldeggiata ad esempio dal ministro dell’Economia Tremonti, di instaurare regole più austere per la finanza?
«C’è senz’altro un modo migliore per fare business, intendo anche nel senso della moralità. Dobbiamo trarre alcune lezioni dalla crisi: una di queste lezioni è che dobbiamo tornare alle regole fondamentali. Mi piace pensare che il mercato non è una giungla, ma ha le sue regole, e le regole attuali hanno fallito e bisogna migliorarle. L’Ocse sta lavorando con i leader di molti Paesi e con le organizzazioni internazionali per renderle più coerenti e compatibili con la situazione attuale».
Che opinione ha dei limiti che alcuni governi pensano di imporre alla retribuzione dei banchieri e dei grandi manager? E pensa che nazionalizzare le banche in difficoltà sia una buona idea?
«Sui limiti ai compensi, trovo inevitabile che ci sia una risposta politica per quanto riguarda le retribuzioni negli istituti che hanno fatto bancarotta.

Quanto infine alla scelta fra banche private o nazionalizzate, sono convinto che bisogna evitare le scelte ideologiche: l’importante è stabilizzare il sistema, e non lasciare che affondi».
Ultima domanda: ci sono troppe riunioni dei «G», G7, G8, G20?
«Ogni riunione crea aspettative per la successiva».

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