Stefano Filippi
Tutto rinviato alla settimana prossima: obiettivi della missione, regole d'ingaggio (che sembra debbano essere «dure, ma non aggressive»), mezzi, ripartizione dei contingenti militari tra i Paesi partecipanti. La riunione di ieri pomeriggio al Palazzo di Vetro (cominciata alle 21,30 ora italiana) non ha preso nessuna decisione. Le delegazioni di 49 Paesi assieme a un gruppo di esperti Onu dovevano, secondo una fonte delle Nazioni Unite, «chiarire i termini dell'impegno della missione Unifil rafforzata, prevista dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, e definire chiaramente le implicazioni legali». Invece nulla di fatto: a oltre 40 giorni dal divampare delle ostilità, e a quasi una settimana dal voto unanime del Consiglio di sicurezza alla risoluzione 1701, la comunità internazionale è ancora paralizzata davanti alla crisi tra Israele e Libano.
Sembrava che ieri fosse il giorno buono per fissare i paletti alla Nuova Unifil, la forza di interposizione Onu. L'altro giorno sembrava delinearsi un fronte di Paesi disposti a scendere in prima linea sotto l'egida delle Nazioni Unite. Viceversa è stata la giornata dei dietrofront. Niente di urlato, beninteso, come s'usa tra i negoziatori; tuttavia i soprassalti di prudenza hanno investito molte diplomazie, a cominciare da quella francese. La nazione che anche ieri - per bocca del presidente Jacques Chirac - si è ricandidata alla guida della missione ha annunciato soltanto l'invio urgente di 200 uomini: un contingente d'emergenza, poco più che simbolico, lontanissimo dai 3000 soldati previsti e che andrà soltanto a rafforzare l'attuale Unifil. Silenzio assoluto sulla nuova missione: evidentemente le garanzie attuali sono del tutto insufficienti e i pericoli crescono di momento in momento. «Si tratta di un intervento militare che, per definizione, è aperto al rischio di utilizzo delle armi», ha ammesso il nostro ministro della Difesa, Arturo Parisi.
La cautela di Parigi ha creato grossi problemi nel Palazzo di Vetro perché ha alimentato la diffidenza di altre capitali occidentali, preoccupate della scarsa chiarezza che regna ancora all'Onu mentre gli unici Paesi (a parte il governo Prodi) che finora si sono detti apertamente disponibili a partecipare all'operazione sono musulmani: Thailandia, Marocco, ma soprattutto Malesia e Indonesia, il più popoloso Stato islamico del mondo, pronti a spedire in Libano mille caschi blu ciascuno. Le ondate crescenti di dubbi e il rischio che qualche Paese possa sfilarsi hanno dunque indotto Kofi Annan a prendere altro tempo rinviando ogni decisione operativa.
Delle 49 nazioni che si sono sedute ieri attorno al tavolo, una ventina avevano già anticipato offerte di contributi in uomini, mezzi o semplici osservatori. Ma per ora si è lontanissimi dai 15mila militari previsti dalla 1701. La Germania ha escluso linvio di truppe di terra ma, come ha detto la cancelliera Angela Merkel, potrebbe dare supporto navale con una fregata. Potrebbe inoltre fornire unità del genio militare e di polizia al confine con la Siria. La Spagna discute se mandare 700 soldati. La Turchia non ha ancora deciso nulla, ma tramite il portavoce del ministero degli Esteri Namik Tan ha fatto sapere che si tratterà esclusivamente di «unità a scopi umanitari e logistici». Dalla Finlandia potrebbero giungere circa 200 uomini ma non prima di un paio di mesi.
Anche la partecipazione dell'Australia - ancora incerta - non andrà oltre pochi specialisti. Belgio, Portogallo, Norvegia, Olanda non si sono spinte al di là di una generica disponibilità e, come nel caso dell'Aja, «solo se necessario». Cipro concederà l'uso delle proprie basi. Restano i Paesi islamici e avranno un peso consistente: ieri il portavoce di Annan, Stephane Dujarric, spiegando che la riunione pomeridiana dei 49 sarebbe stata soltanto interlocutoria, ha precisato che la composizione del contingente Unifil «rappresenterà grosso modo il mondo in cui viviamo, con truppe musulmane e truppe non musulmane».
Tutti gli interrogativi sulla missione restano quindi aperti: quanti uomini, quanti mezzi, come ripartire le forze tra i Paesi contributori, quali garanzie e soprattutto quali regole d'ingaggio.
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