L’ultrà confessa «Ho picchiato ma non ho ucciso»

Il ragazzo in lacrime davanti ai filmati crolla poi ritratta: «Ho mentito per non fare 30 anni di galera Non odio la polizia»

nostro inviato a Catania

Ha confessato, anzi no. Quando sembrava che stesse finalmente per cedere di fronte alle evidenze dei filmati, il sedicenne Antonio S. ha trattenuto male le lacrime, si è portato le mani al viso supplicando il difensore di ascoltarlo riservatamente. Finito il conciliabolo, il ragazzino s’è tolto il peso dallo stomaco. «Vorrei scusarmi, ma se fino adesso ho negato è perché avevo paura di beccarmi trent’anni di galera per l’omicidio dell’ispettore. È vero, quello del video sono io, ho partecipato agli scontri ma non ho mai colpito quel poliziotto. Mi dispiace tanto per la morte di questo Filippo Raciti, condoglianze alla famiglia, io non odio la polizia».
È condensata in frasi ben scandite la linea di condotta del piccolo grande ultrà abbracciato alla mamma nel faccia a faccia con i rappresentanti della giustizia minorile. Ha negato finché ha potuto, s’è arreso quando non poteva farne a meno ma si è ripreso in zona Cesarini quand’ormai sembrava predestinato a passare i migliori anni della sua vita in un penitenziario.
Parola per parola ecco la mezza-confessione del tifoso rossoazzurro. L’interrogatorio si apre con i magistrati che mostrano le foto degli scontri al ragazzo. Le immagini che lo riprendono non sono nitide: «Vi sbagliate, non sono io quello lì. Io ero da tutt’altra parte dello stadio. E poi non ero nemmeno vestito così». Altra foto, questa è più chiara: «Mi assomiglia, ripeto, non sono io. Mi sono trovato fuori dello stadio e ho assistito da lontano agli scontri, non appartengo ad alcun gruppo ultrà. Sono uscito dalla curva quando sono arrivati i primi lacrimogeni». La stessa litania fino a quando si passa al video, al ralenty, al suo primo piano su cui, stavolta, c’è poco da discutere. Antonio entra in crisi, è nel pallone. Balbetta. Si alza dalla sedia e si rivolge ai genitori: «Mamma te lo giuro non l’ho ucciso io, papà credimi, ti prego». C’è bisogno di una pausa. Con un bicchiere d’acqua arrivano le confidenze con l’avvocato e la ripresa dell’interrogatorio. Il filmato focalizza Antonio che entra e esce dai bagni dello stadio con qualcosa in mano: è il telaio del lavabo distrutto a calci, è l’arma che ha ucciso Raciti sbotta il giudice. Il mini ultrà farfuglia parole incomprensibili, dopodiché afferma: «Sì quello sono io, è vero. Stavamo cercando di uscire dalla curva ma la polizia aveva bloccato tutto così mi sono diretto ai bagni per lavarmi la faccia, mi bruciavano gli occhi per i gas dei lacrimogeni».
Non ricorda d’aver preso in mano proprio quel pezzo di ferro, o forse sì. Sta di fatto che altri video, immediatamente successivi, lo incastrano con quest’asse ondulato stretto in pugno per mulinarlo contro i celerini. È lui, non ci piove. Ma la prova regina manca, non c’è l’immagine del colpo sferrato al fegato dell’ispettore. «Io ed altri ragazzi, di cui non so indicare i nomi, abbiamo avuto un impatto con gli agenti ma solo ed esclusivamente per uscire vivi da quella bolgia. Non sono stato il solo a usare quel pezzo di ferro, ogni volta che cadeva qualcuno lo raccoglieva e lo lanciava anche per aria, ce lo siamo scambiati spesso tra noi. Sono certo di non aver colpito l’agente Raciti, forse negli scontri posso aver toccato qualcuno ma escludo fosse nel posto dove mi contestate essere avvenuta la colluttazione mortale. Io sono stato colpito ripetutamente. Mi reputo un semplice tifoso del Catania. Insisto nel dire che ho partecipato agli scontri, quindi che sono tornato in Curva». Giusto per dire: «Avrò al massimo spintonato un agente ma ve lo giuro su Sant’Agata non ho ucciso nessuno». Polizia e magistrati non hanno dubbi, l’avvocato Lipera ne solleva invece tantissimi.

La verità starà anche nel mezzo, ma il piccolo ultrà rischia di restare al fresco parecchio con l’accusa d’omicidio volontario. La caccia si sposta ai suoi cinque colleghi di scorribande ripresi dal video verità: non hanno un nome, per ora.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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