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L’urlo del papà: «Ce l’hanno ammazzato»

Lasciata la cascina del sequestro, si era rifugiato nella casa della cognata

L’urlo del papà: «Ce l’hanno ammazzato»

Enrico Lagattolla

da Milano

«Dice che ha parlato». «Chi?». «Alessi». Cade la linea. «Cos’è successo?». La parola che trema. Un urlo strozzato. Rumori d’ambiente. La televisione che dice qualcosa che lo riguarda. Una voce di donna. La moglie, forse. «Cosa? Cosa?», quasi gridato. Ancora rumore. Telefonata in attesa. Poi cade la linea, un’altra volta. L’ultima. L’attimo in cui Paolo Onofri smette di sperare. Scopre che Mario Alessi ha confessato. Che è lui ad aver preso suo figlio. E che l’ha ucciso. In quel momento, esatto, sa della morte di Tommaso.
Non crede o non capisce, almeno non subito. E non crede perché questo era il giorno per avere fiducia, perché quaranta persone erano state fermate, e qualcuno gli aveva detto che la conta era finita. Trenta giorni per illudersi, una manciata di secondi per consumare il miraggio.
Lui, Paolo Onofri, la giornata l’aveva passata «attaccato ai telegiornali, alle agenzie, a internet». Aveva risposto al telefono con la voce di chi aspetta l’unica notizia che gli importasse davvero. «A quasi un mese dal rapimento del piccolo Tommaso», diceva. Un altro giorno. «L’ultimo, spero. Ma gli inquirenti non mi hanno ancora detto niente. Vivo nell’ansia. E aspetto». Un’ora, prima di sapere.
Eppure qualcosa era cambiato. «Ieri notte è successo il finimondo. È intervenuto il Gruppo di intervento Speciale dei carabinieri. Non è un caso, qualcosa vorrà dire. Gli ultimi tre giorni sono stati un inferno, sprofondati in uno scoramento assoluto. Da quando è stata trovata quella scritta sulla strada («Ne hai abbastanza?» ndr), è calato il silenzio. Psicologicamente e moralmente è stato devastante, qualcosa che non auguro nemmeno al mio peggior nemico. Sicuramente, il momento più difficile».
Superato, quel momento. «Ora spero», diceva. «Questa mattina ho saputo delle novità dai telegiornali. Ci siamo - ho pensato -, forse ci siamo». Perché trentotto persone erano finite davanti al magistrato, e «non so che razza di pasticcio ci sia dietro, ma ci potrebbero essere diverse spiegazioni. La prima è che nel corso delle indagini, e a seguito delle perquisizioni, gli inquirenti abbiano trovato qualcosa che va al di là del sequestro di Tommaso. Del resto, è toccato anche a me». Ed è stato l’unico momento in cui Paolo Onofri era sembrato alterarsi. La voce alta, ma per un attimo. Poi aveva ricominciato, come prima. «L’altra, è che non vogliano gettare il “mostro” in pasto all’opinione pubblica. Oppure, che abbiano deciso di confondere le acque».
E la sua teoria ce l’aveva, Onofri. Ma «siamo in un momento molto delicato, hanno trovato delle tracce di Tommaso», quindi il cerchio era stretto attorno ai rapitori, che sarebbero cinque o sei, tutti siciliani, divisi in tre gruppi. Le donne, invece, probabilmente sono due. «Questo mi hanno detto gli inquirenti. Nella zona della bassa parmense c’è una golena, con una miriade di casolari abbandonati e isolati. Per avvicinarli devi percorrere delle lunghe strade sterrate, da dentro ti possono vedere. E lì si muovono in continuazione, spostando mio figlio da un casolare all’altro, e da un gruppo all’altro. È come cercare un ago nel pagliaio, e loro sono organizzati. Ma i segni del passaggio di Tommaso ci sono».
Così pensava Paolo Onofri, a torto o a ragione. E di parlare ne aveva quasi voglia, perché «le indagini sono a una svolta. Ancora non mi hanno detto nulla, però aspetto». Ma non nella sua casa di Casalbaroncolo, perché «a casa non ci torno finché non ci torna anche Tommy, e non ci porto mia moglie fino a che non ci metto un impianto di sicurezza. Lunedì. Lunedì iniziano i lavori».
In qualche modo, quindi, orientato al futuro. Anche se una spiegazione per quanto successo «ancora non ce l’ho. Questo non è un rapimento a scopo di estorsione, ma di ritorsione. Però si sono fatti una convinzione sbagliata, io non ho niente, non ho i soldi di nessuno, né ho gestito denaro per conto di qualcun altro. Forse pensano che quel denaro ce l’abbia io, o che abbia perso del denaro che non mi apparteneva, ma non è così. E se fosse stato un avvertimento, mi avrebbero sparato a una gamba, e invece hanno rapito un bambino. Sono dei balordi, non dei rapitori professionisti. Ed è una cosa che ho sempre pensato, fin dall’inizio. Ma a questo punto ci sono un milione di ipotesi, e sono tutte valide».
La voce di Paolo Onofri era carica di attesa, prima di sapere. Cortese, ma irrequieta. «Mi scusi, ora... Grazie». Dal telefono aspettava una notizia. Una.

Non questa.

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