Probabilmente, ogni monologo è tale solo in apparenza. Perché segue una interrogazione anteriore e silenziosa, una domanda che assume, volta per volta, toni e intenzioni e sfumature diverse: inquisitive, ultimative, disperate, confuse, categoriche. Dunque, quando io racconto di me stesso, in verità sto rispondendo. Anche se non me ne rendo conto e scambio quel dialogo per un soliloquio. A rigore, il solipsismo non esiste. Nemmeno quello mentale. Perché ogni atto di parola è connesso, avanti e indietro, a una serie interminabile di eventi verbali. Si replica ad altri parlanti, alla propria coscienza, allinconscio, a dei fantasmi. Eppure, il rispondere a voci che soltanto a me accade davvertire passa per un gesto strano, anomalo, egotico: secondo alcuni è da pazzi. E allora, pazzi lo siamo tutti.
Per questo, è perfino possibile al lettore riconoscersi in alcune delle Voci dosteria di Franco Loi (Mondadori, pagg. 155, euro 12). Dove, appunto, si parla, si racconta, si inveisce, si ricorda. Soprattutto, si pongono quesiti assoluti nelle forme più elementari, basse, allucinate. E ci si misura con le grandi domande sullesistere. Quelle che, proprio perché abissali e vaste e spaventose, sono le sole ad ammettere risposte plurali, paradossali. Stralunate. Qui sta, credo, la grandezza e la disperazione dei versi di Franco Loi: prendere atto che quelli che si definiscono «i quesiti ultimi» impongono non una sola, bensì una costellazione, forse una polverizzazione di risposte. Tutte valide, e tutte in contrasto tra loro. Tutte tendenti alla verità e, da quella stessa verità, allontanate, respinte. La tensione dei versi di Loi, che in questo suo ultimo libro raggiunge lapice, sta qui, in una mistura, un incrocio di entusiasmo sapienziale e di frustrazione. Si va avanti tra spinte allalto e ricadute. Tra le presunzioni dintelligenza delluomo e i suoi sensi di impotenza, vergogna, stupidità. Di norma, siamo abituati a inquadrare queste tensioni nellambito della cultura. Loi ci dimostra che, invece, stanno più sotto, già nel terreno delle pulsioni elementari. Dove sta una ricerca «primaria» della luce che parte da zone di buio magmatico e, inevitabilmente, ci ritorna. Una sorta di eros permanente che si lancia verso eventuali oggetti del desiderio assoluti e non li raggiungerà mai. Tutto questo, Franco Loi lo sa anticipatamente. Eppure, non smette di meravigliarsi per questa spinta, che diventa, di fatto, lanima vera duna umanità labile, debole, sospesa tra il sordido e il sublime, tra ladesione totale alla vita e il rifiuto. Tra pensieri assoluti, verticali e stati di inebetita semiidiozia.
È una sorta di limbo vocale, losteria-universo di Franco Loi. Dove le voci vanno e vengono, urlano e sussurrano, dicono una cosa e insieme il suo contrario, maledicono e parlano damore. E si esprimono in una lingua edenica, mai parlata eppure gemella dun dialetto milanese biascicato, «sporcato» dalla regolarità degli endecasillabi, dalla ricorrenza delle rime. E dalle invenzioni, dalle deviazioni la cui ragion dessere cade nel preconscio. Lingua che si apre a momenti di grande cantabilità e un attimo dopo, si concentra sulle monodie o i lays di esistenze singole, tragicamente isolate.
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