Fra il «lei» e il «tu» c’è il confine della buona creanza

Caro Granzotto, ci scrivemmo molto tempo fa a proposito della continua barbarizzazione del nostro idioma, ci scrivemmo poi e siamo ancora in illo tempore a proposito della cattiva usanza di dare indistintamente del tu. Da allora e su sollecitazione dei lettori, si è tornato spesso a trattare, nella sua quotidiana rubrica, quegli argomenti. Che vengono ora ripescati dalla stampa e dalla televisione con conseguente «apertura» di dibattiti e di «tavoli». Torneranno utili, a suo giudizio? Si riuscirà a mettere un limite alla incalzante sciatteria linguistica e all’indisponente vizio di rivolgersi sempre e comunque con il tu? Io ci spero poco.


Non credo, caro Mastelletti. Recita infatti la prima legge di Murphy che se una cosa può andar male, va male. E la seconda, detta anche legge di Gumperson, che le probabilità che qualcosa accada sono inversamente proporzionali alla sua desiderabilità. Pertanto ci terremo il cialtronismo linguistico e l’imperante «tutoismo» (purtroppo l'italiano, ancorché ricco, non ha l'equivalente del francese tutoyer, dare del tu). L’improvvisa fiammata linguaiola a sostegno o a derisione delle regole grammaticali e della buona creanza, è comunque un buon segno: aiuta per lo meno a riconoscere i propri peccati, anche se poi si persevera nel commetterli. E a permettere un giro d’orizzonte e tastare il polso dei degenti, l’italiano e la creanza. Anche il nostro gagliardissimo Luigi Mascheroni s’è misurato, sarà un mese, col degrado del linguaggio e in particolare con lo stato di salute del congiuntivo. Dopo aver elencato clamorosi esempi di massacri della forma verbale (dal «Credo che Dio è un'invenzione della mente» di Eugenio Scalfari al «Sabato inauguro la mia nuova casa, vorrei che ci sei anche tu» di quel lokum, di quella turkish delight di Sabrina Ferilli), ne conclude, però, che devesi ritenere falso il luogo comune che dà ormai per morto il congiuntivo, ammazzato dalla televisione, dai nuovi media e dall’analfabetismo di ritorno (e quello di andata, dove lo mettiamo?). Può darsi che le cose stiano così, anche se a me sembra, udendo il parlare comune, che si vada perdendo non solo l’uso del congiuntivo e di altre forme verbali (il futuro anteriore, il passato e trapassato remoto, eccetera), ma di una sfilza di verbi sostituiti dal solo e standardizzante «fare».
Sul fronte del «tutoismo» bisogna invece registrare la precisazione di Federico Fabretti, «Direttore centrale delle relazioni con i media» (oh, ma la vecchia dizione di «Ufficio stampa» non va più bene? E perché?) di Trenitalia, chiamata in causa da un nostro lettore per via dell'indisponente «tu» rivolto ai clienti che si servono del servizio telematico. Bene, per giustificare quella che è e resta una forma di maleducazione, una cafonata, Fabretti sostiene l’insostenibile e cioè che l’uso del «tu» risponde «alle regole suggerite (regole suggerite? Mah) dalla netiquette, il galateo comunemente condiviso dagli utenti della rete». Questa della condivisione è una balla, ma lasciamo perdere.

Però, come si fa ad affermare che quella bischerata della netiquette impone l’uso del «tu» per ragioni virtuose e cioè per adeguare gli utenti di Internet a «un lessico e a uno stile chiari e diretti»? Il «lei» non è chiaro? E forse indiretto? Obliquo, ambiguo, sfuggente? Al fine della comprensione se invece di scrivere: «potrai ritirare il biglietto direttamente alla stazione di partenza» si sceglie: «potrà ritirare il biglietto...» il significato non cambia. Cambia semmai la misura dell’urbanità, della buona educazione - «socialtiquette», dottor Fabretti - dello scrivente.
Paolo Granzotto

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica