Leopoldo Pirelli, simbolo di una città signorile

Dire Leopoldo Pirelli a Milano è dire lavoro, crescita, senso del sociale e del dovere. E la famiglia Pirelli rappresenta l’anima di quella borghesia, imprenditoriale e liberale, che ha fatto Milano e l’Italia. Una storia che il professor Franco Amatori, direttore dell’Istituto di storia economica all’università Bocconi e autore di uno studio sulla Pirelli proprio negli anni in cui al vertice era Leopoldo, conosce bene.
«Leopoldo Pirelli ha scritto una pagina importantissima del nostro Paese e della città di Milano. Laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano nel 1950, dopo un tirocinio interno divenne di fatto presidente operativo dell’azienda nel 1959, dopo che il padre Alberto, uno dei massimi uomini industriali e politici italiani della sua generazione, fu colpito da ictus. Leopoldo originariamente non era destinato alla guida dell’azienda: il successore naturale era il fratello maggiore, Giovanni, militante della sinistra socialista e uomo di grande cultura, il quale rinunciò a ogni incarico per le sue posizioni politiche. E così Leopoldo, il secondogenito, si trovò a raccogliere la successione».
Qual era la situazione in quel momento?
«Quella che Leopoldo Pirelli si ritrovò a gestire era un’azienda fiorente negli anni del miracolo economico ma che aveva dei punti deboli. Era molto diversificata, innanzitutto: cavi, pneumatici e articoli vari. E quando arrivarono i turbolenti anni Sessanta, la Pirelli finì per trovarsi in acque agitate, sia per il difficile contesto sociale ed economico, sia per una aumentata concorrenza rispetto al passato. In particolare, la Michelin lanciò in quegli anni un nuovo tipo di pneumatico, il radiale. La contromossa di Pirelli fu la fusione con la Dunlop, ma rimase un accordo incompleto, di vertice e non operativo. E così negli anni Settanta l’azienda conobbe una grande crisi».
Come reagì Leopoldo Pirelli?
«Leopoldo si comportò bene: rinnovò il vertice aziendale, passò da un management familiare a uno professionale, rilanciò l’aspetto internazionale, perfezionò l’unione con la Dunlop, rafforzò la ricerca. Lavorò sempre con coraggio e intelligenza, fino al passo falso del 1991, ormai al termine della sua parabola: i tentativi di acquisizione della Firestone e della Continental che si risolsero in un mezzo disastro».
L’aspetto più importante della sua personalità come industriale?
«Tanti, ma soprattutto il fatto che fu un grande innovatore, sia in Confindustria con la Commissione Pirelli del 1969; che nelle relazioni industriali, con il pacchetto di proposte ai sindacati, il cosiddetto “decretone” che prevedeva l’aumento dei salari, la diminuzione dell’orario di lavoro e un’agevolazione per la manodopera femminile. Leopoldo Pirelli in questo fu un uomo del dialogo».
Cosa ha rappresentato per la città di Milano?
«Un grande esempio, una figura molto signorile. Pirelli era quella che si dice una persona per bene. Come dimostrò ad esempio all’epoca di Tangentopoli quando ammise che se davvero avessero voluto le grandi imprese avrebbero potuto spezzare il fenomeno della corruzione.

Fu un simbolo, come lo è la Torre Pirelli, il “Pirellone”: un progetto voluto dal padre, Alberto, e che lui stesso appoggiò e portò avanti. Così come ha fortemente voluto e realizzato negli anni Ottanta il progetto di trasformazione della Bicocca, il cuore storico dell’azienda e oggi un fiore all’occhiello di Milano».

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