Conobbi Léo Moulin oltre vent'anni fa, ai tempi dell'università, durante uno dei suoi tour italiani in cui univa ricerche d'archivio, cicli di conferenze e scorribande gastronomiche. Storico belga del monachesimo europeo, in particolare di quello benedettino, e assieme sociologo del cibo: tavola e monastero, due mondi inscindibili visto che agli ordini religiosi siamo debitori dello champagne, della birra, della maggior parte dei formaggi, dei centerbe e di mille altre leccornie.
Orgogliosamente agnostico, si definiva «un vecchio incredulo». Ma uno che intitola il capitolo di un libro «Le frattaglie e il sacro», non può restare tutta la vita nell'indifferenza o con il dubbio se Dio esista davvero oppure no, e infatti il grande Moulin si convertì poco prima di morire, a 90 anni, nel 1996, nella sua Bruxelles.
La sera che potei cenare con lui gli ero seduto a fianco. Aveva già passato gli 80 anni ma a tavola ringiovaniva di colpo. A ogni portata estraeva un'agendina rossa dove annotava nome del piatto e ingredienti chiedendo chiarimenti ai commensali o ai camerieri. Non un taccuino: era proprio un'agenda, che gli consentiva di legare la mangiata al luogo e al giorno, e forse alla brigata che gli faceva compagnia.
Quando uscì «L'Europa a tavola», tradotto in italiano addirittura 18 anni (vergogna!) dopo la pubblicazione in Belgio, corsi ad acquistarlo. Un libro colto, raffinato, brillante, pieno di vita, lontano mille miglia dallo snobismo dei fondamentalisti del cibo, quelli che niente surgelati né cibo industriale, quelli che «terra tradizione territorio» e nient'altro, quelli che «guerra al fast food».
Un libro che definirei laico, privo dei pregiudizi che invece sono il pane degli schizzinosi. I suoi inni a fegato e trippe, le sue scorribande dal kokoretsi greco ai crubeens irlandesi, la sua indulgenza verso Noè (primo uomo a coltivare la vite e quindi primo ubriaco della storia) mi accompagnano nelle notti di Maalox.
Léo Moulin
L'Europa a tavola
Oscar saggi Mondadori, 1993
(stefano.filippi@ilgiornale.it)
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