da Roma
Ma guarda che sincronia: cala il sole appena dietro al palco e i Genesis arrivano quatti quatti a godersi l'applauso sterminato della gente che si perde fin là in fondo, qui al Circo Massimo vestito a festa. Neppure una parola, niente, nemmeno un gesto perché è la musica, perdiana!, che domina i concerti di questi tre musicisti appena si accende il fragore delle luci e rimbombano le note dopo l'introduzione Behind the lines / Duke's end: sono un cronografo del rock. Tocchi perfetti. Ritmo impassibile. Neanche a farlo apposta, il primo brano si intitola Turn it on again, accendilo di nuovo, che è un po' il loro motto: i Genesis sono il gruppo delle rinascite, l'araba fenice del rock che in quarant'anni di carriera ha cambiato pelle, faccia e suono, ha mescolato con indifferenza rock e pop ma è rimasto sempre il portavoce dell'abilità strumentale, capace di invadere le classifiche e rimanerci benone senza deludere nessuno. E così, quasi in scioltezza, anche ieri sera hanno distillato la loro storia, un pezzo vecchio e uno più nuovo e via così, senza scontentare il pubblico (gli organizzatori dicono cinquecentomila) che fin dal pomeriggio si era accalcato sotto il sole ad aspettare che finalmente l'araba fenice ritornasse a Roma vent'anni dopo l'ultima volta.
«Noi siamo i Genesis, è un posto molto speciale» ha subito detto Phil Collins, vestito di nero, il vero protagonista del concerto se non altro perché fa quasi tutto lui: canta e suona la batteria e spesso lo fa contemporaneamente a dispetto dei suoi 56 anni e passa perché il rock lo ha vissuto con regolarità mica con l'esagerazione dei suoi coetanei. A guardarlo perso sui settanta metri del palco, illuminato a tratti dall'impianto luci stellare, sembra il direttore d'orchestra che manda a menadito le canzoni nota per nota; alla sua destra c'è Tony Banks, il tastierista con le mani lievi sui tasti e lo sguardo fisso nel vuoto. A sinistra l'altro fondatore del gruppo, lo spilungone Mike Rutherford che si alterna al basso e alla chitarra. Volendo, sono loro tre l'anima del gruppo, anche se l'altro chitarrista Daryl Stuermer suona con loro da quasi trent'anni e il batterista Chester Thompson conosce le canzoni a memoria. Gli basta un'occhiata, pensate un po', per intendersi con Phil Collins anche quando, dopo No son of mine e Land of confusion, inizia il primo medley della serata, quello fatto apposta per dire: ecco qua, vediamo se qualcuno sa suonare meglio di noi. In the cage, The Cinema show, Duke's travels e Afterglow.
«Sono canzoni d'annata», dice in italiano Phil Collins, che per tutta la serata mescolerà le lingue proprio come ha fatto con gli stili musicali nella sua carriera. Un po' rock, un po' pop, persino un po' jazz. E lo dimostra quando, dopo Domino e prima di Los endos, si lancia in un assolo di batteria a due: un capolavoro di tecnica che passa in rassegna tutti gli stili e, soprattutto, dimostra una conoscenza assoluta della tecnica. E difatti il pubblico rimane a bocca aperta, godendosi uno spettacolo che capita sempre meno spesso: l'esibizione della bravura.
Insomma, per quasi due ore e mezza i Genesis sono andati avanti cavalcando il loro repertorio, lasciando poco spazio a quello che loro stessi hanno definito «uno spettacolo teatrale» e concentrando tutto sulla precisione delle esecuzioni. D'accordo, le luci sono da manuale e i milioni di pixel del megaschermo rimandano immagini talvolta anche affascinanti (come l'orologio che gira al contrario di No son of mine e l'Urlo di Munch in Home by the sea) ma il centro dello show è tutto lì, nella musica.
Sarà per questo che il tour dei Genesis, di nuovo insieme dopo quindici anni (senza Peter Gabriel), è uno scintillante successo d'incassi in tutto il mondo. Ieri era l'ultima data europea prima di un tour americano che sarà una raccolta strepitosa di tutto esaurito a dimostrazione che c'è ancora spazio per chi riesce a comunicare emozioni con gli strumenti suonati a mano, senza l'utilizzo di marchingegni programmati con i computer.
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