Il lungo viaggio da Pola a La Spezia

Il lungo viaggio da Pola a La Spezia

Pola al censimento austriaco del 1910 era al 75 per cento abitata da italiani, nel 1946 28mila polesani firmarono per abbandonare la città se assegnata alla Jugoslavia. Censiti per ribattere le accuse dei titini che fossero «ricchi pescicani borsari neri», meno di un migliaio risultarono industriali e professionisti, gli altri artigiani, operai, commercianti, impiegati e privati. Quando fu negato «il plebiscito» (e a San Francisco le Potenze Alleate avevano giustificato l'entrata in guerra con la difesa del principio di autodeterminazione dei popoli) non rimaneva che «il plebiscito dell'esodo». Si aprì ufficialmente il 23 dicembre '46 prima del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio '47 (il Diktat): «italiani due volte per nascita e per libera scelta», come disse Giuseppe Saragat presidente della Repubblica. Sono schegge fiammeggianti dal nuovo libro di Lino Vivoda, esule da Pola a 17 anni con altri 2155 polesani sul IV convoglio del 16 febbraio '47 del «Toscana» (che compì altri dieci tragitti): Quel lungo viaggio verso l'esilio. Pola-Ancona-Bologna-La Spezia, (Edizioni istria europa. Imperia 2008).
Alla partenza viene a salutare la famiglia Vivoda l'affezionata Antonietta che stirava a casa loro, una comunista sfegatata, chiedendo: «E quando il comunismo comanderà anche in Italia dove andrete?» «In Australia», rispondeva mamma. «E quando arriverà anche là?» «Magari sulla luna, mai sotto i comunisti».
La memoria della pulizia etnica comunista titina ad una prima stima fu «di cinquemila morti infoibati che - fa osservare l'autore - salivano a ventimila con gli uccisi in vari modi, appesi ai ganci di macellerie, fucilati, annegati con pietre legate al collo, morti di stenti nei campi di rieducazione». Diventato studioso di storia patria oltre che funzionario del Ministero del Lavoro, Vivoda punta il dito sui falsi storici in atto. Il negazionismo è alimentato da pseudo-storici (la Kersevani, la Cernjal), da altri disinformati sulle foibe, Giacomo Scotti, Pedrag Matvejevic, al punto da sostenere che i fascisti per primi gettarono in foiba autocarri pieni di prigionieri. E non risparmia la «propaganda ufficiale» dei presidenti Mesic di Croazia e Drnovsek della Slovenia su «un'occupazione italiana dell'Istria solo dal 1918 al 45», ignorando la storia: dal 178 a.C. quando i Romani raggiungono le Alpi orientali alla costituzione dei liberi Comuni medievali che accomuna l'Istria all'Italia del Nord e che i popoli Slavi non conobbero al forte legame dal 1300 con Venezia, alla lingua.
Il libro s'apre con il distacco dal suo mondo giovanile: la messa di mezzanotte del Natale 1946 con lui nel servizio d'ordine degli esploratori cattolici dell'ASCI di Pola, il 31 dicembre l'addio collettivo dei polesani con il canto dei Lombardi al Teatro Ciscutti, poi il commiato scout con la bandiera italiana ammainata, poi la visione della sua città vecia, della rivendita di pane e latte di nonna Maria, dell'osteria con il bigliardo di nonna Caterina...
«O signor che dal tetto natio» è il canto struggente degli esuli quando la nave abbandona il molo». Questo libro è musicale per l'inseguirsi di canti profondamente connotativi: all'arrivo del "Toscana" ad Ancona da dietro le file dei soldati sul molo echeggia Bandiera rossa, cui il pubblico risponde con fischi e dalla nave con Fratelli d'Italia. Quando arrivano in treno a Bologna, il capitolo «Niente cibo al treno dei fascisti» riporta un episodio noto, ma qui insaporito delle frasi che uno degli esuli grida alla lettura del comunicato per altoparlante: «Tu mare putana gho fato due anni el partigian in bosco e ti me ciame fascista». «Gavemo lassado ste merde in Istria e se li trovemo anca qua».
Il racconto si circoscrive in due momenti. Il primo, alla partenza per far capire la tensione del tempo. A bordo del «Toscana» vengono trovate due valige di esplosivo messe da un agente dell'OZNA (polizia segreta di Tito) per far saltare il piroscafo in mezzo all'Adriatico. Si sarebbe ripetuta la strage di Vergarolla, spiaggia di Pola, (18 agosto 1946) in cui tra le settanta vittime di una festa popolare della Pietas Julia, restò Sergio, il fratellino di otto anni dell'autore. La salma fu inviata (e anche altri polesani si portarono via i morti) al Cimitero Dei Boschetti di La Spezia, dove ora riposa il nucleo originario dei Vivoda.
Il secondo momento: l'approdo. Dalla caserma spezzina Ugo Botti l'autore riuscì ad andar via dopo 8 anni ed entrato nell'associazione dei profughi, l'ANVGD, riuscì a far costruire per gli ultimi che la lasciarono 16 anni dopo (1963) 42 appartamenti a Rebocco nel terreno donato dal Comune di La Spezia. Alla partenza si era ripromesso di tornare senza passaporto nella sua terra ed ha potuto farlo: per il futuro spera in un'Istria europea.

In cuore il canto dell'Adio a Pola (di Arturo Daici): «I disi che bisogna far valise che in primavera dovarò pompar con quattro fazoleti e do camise e con do brazi che sa lavorar/ Do robe vojo cior per ricordar/ In t'un scartosso un tochetin di Rena/ in'na fiascheta un fia del tuo bel mar.../Solo do lagrime/ una per ocio/ e po' in zenocio/ questa tera baserò».

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