La storia parlamentare della Repubblica è carica delle storie di rivolta dei deputati che non hanno cariche di governo. Nella prima legislatura repubblicana, quella del 1948, il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, dovette riscontrare la ribellione di deputati a lui politicamente omogenei, che però si sentivano frustrati dal loro compito esclusivo di pigiare il bottone per appoggiare il governo. La democrazia aveva fatto del Parlamento il luogo il cui compito fondamentale non era dibattere i problemi ma sostenere un governo. Aveva innalzato il regime parlamentare, ma diminuito il ruolo dei parlamentari. Al tempo di De Gasperi si autochiamarono peones o, secondo un’espressione più colorita, bassa macelleria.
La democrazia bipolare, esaltando il rapporto diretto tra leader politico e corpo elettorale, ha ancora abbassato il livello di gratificazione del mestiere dei parlamentari, ancora più obbligati a pigiare bottoni. E ora il parlamentare deve farlo, grazie alla brillante invenzione del presidente della Camera, anche da sorvegliato speciale, dando la prova elettronica della sua presenza in aula. Che il parlamentare si senta frustrato e legato alla macchina è un fatto che il nuovo sistema di votazione ha ancora aumentato. Questo spiega perché Berlusconi abbia avuto l’idea di proporre il voto attraverso i capigruppo. Il sistema bipolare fa del parlamentare un uomo legato alla macchina, un nuovo singolare fordismo. Fini, che si è scandalizzato per la proposta di Berlusconi, ha solo aggravato il peso della coscienza infelice del parlamentare.
Per questo non ci meravigliamo che la prima risposta al nuovo sistema di voto sia stata un atto di ribellione di cento parlamentari che hanno voluto dire «ci siamo anche noi». Poi dietro ci sono legittimazioni importanti: dalla Caritas (e non dal Vaticano) e dal presidente della Camera, leader di An.
Ma i cento deputati devono tenere conto che Maroni avrà pure un temperamento scostante e la Lega un comportamento debordante ma che, grazie al ministro dell’Interno, il Paese ha avuto il senso che anche per il governo l’immigrazione è un problema e non una soluzione, e che lo Stato non acconsente all’invasione del Paese in nome del soccorso in mare. Un popolo è un popolo, una nazione è una nazione. L’accoglienza è un dovere ma anche un diritto, il diritto di accogliere non chiunque voglia venire ma chi possiamo accettare. Maroni ha combattuto una buona battaglia, anche se la sua intenzione di limitare a Lampedusa l’accesso delle barche della sciagura e della compassione al territorio italiano non è riuscita. Forse è stata stimolata dall’interno del nostro Paese la rivolta degli sbarcati che hanno distrutto il centro di accoglienza. La Tunisia e anche la Libia si sono mostrate meno collaborative di quello che sono stati il Senegal e il Marocco per la Canarie e per la Spagna.
D’altro lato la Lega Nord non può considerare se stessa come una parte che prende solo e non dà niente. E soprattutto non può trattare il federalismo fiscale come una variabile indipendente dalla maggioranza e dall’opposizione. E negoziare di fatto con il Partito democratico sino a far approvare, su una materia diversa dal federalismo fiscale, quella delle spese dei Comuni, una mozione Franceschini, dando al Pd una bella vittoria morale. La maggioranza è la maggioranza anche per la Lega, il federalismo fiscale è l’impegno della maggioranza, non può diventare una questione a sé, sospesa nell’aria tra governo e opposizione.
La nascita del nuovo partito e le prossime elezioni europee amministrative aumentano il prurito della politica.
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