Magrelli, versi di «mostruosa» potenza

Fosse possibile indicare dove nasce l’ultimo libro di Magrelli, Disturbi del sistema binario (Einaudi, pagg. 77, euro 9,50), risponderei: in un dolente thaumathein per il mondo, in una disarmata e lucidissima consapevolezza dell’assoluto confondersi, azzerarsi delle diversità e dei contorni che le definiscono. In sintesi: nella cancellazione irreversibile di ogni forma. Così, la vita si riduce a «qualcosa» di inquinato dalla morte, la pace è mischiata a macellazioni, il bene incrociato all’orrido, il nuovo al riciclato. E domina la luce d’una indifferenza triturante, invasiva, malefica. L’immagine complessiva è quella di una postmodernità sfrenata che fabbrica mostruosità bicefale, onnicefale. Nulla è univoco, «esseri doppi popolano il mondo»: città-carnai, case-pelle, cibi-avanzi, vecchi-giovani.
Ora, se la formula del mostruoso sta nei sovraccarichi di senso che investono anche quanto appare abitudinario e rassicurante fino a renderlo deforme, ambiguo, eccessivo e pericoloso, la realtà che circola nei versi di Valerio Magrelli è, irrecuperabilmente, il regno della mostruosità. Icona di tale condizione diventa, allora, la celebre figurina di Jastrow ripresa da Wittgenstein nella seconda parte delle Ricerche filosofiche: il disegno che può venire guardato tanto come testa d’anatra, quanto come testa di lepre. Ne risulta alla percezione un essere binario, sdoppiato, bisenso. Di nuovo: mostruoso. Perché qui si riassume il disfacimento della certezza umana più ovvia: che una cosa è se stessa e non è altro, che A=A. L’anatra-lepre è, infatti, i due animaletti insieme: è l’assurdo calato davanti alla mia vista, l’impensabile, l’emblema di una vita che si è fatta inafferrabile, sregolata, incomprensibile. O che è, definitivamente, impazzita.
Eppure, Magrelli mantiene ancora scatti di disperata linearità cartesiana (ormai leciti solo alla poesia? Sarebbe un bel tema, per un filosofo...), e tenta di afferrare l’attimo che precede il ricadere delle cose nell’indifferenza, la frazione di tempo nella quale la diversità ancora esiste, o resiste. Qui, nell’ostinazione a rintracciare frammenti di singolarità non precipitati nel calderone dell’unicità azzerante e appiattente, è dato intravedere spiragli di creaturalità, umanità, naturalezza non deformata. Spiraglio labile, precario: errore di percezione o effetto di un déjà vu che, come in un prodigio, si ripresenta qui e ora. Tutto si affida ai pochi gesti in grado di afferrare le rarissime pieghe dell’esistere dove sopravvivono ancora delle differenze. Gesti forse già postumani, postapocalittici. Gesti ridisegnati nella loro evoluzione e nei loro ritorni da una lingua che, scordati per sempre i toni elevati, si affida a un «neovolgare» attraversato da tecnicismi, da termini corrivi di conio recente ma già abusati. Lingua sottoposta all’inerzia del riciclìo, consumata perché nata fragile. Lingua semipostuma, sopravvissuta a se stessa.
Raccolta strana, anomala, inquietante, quella di Magrelli: desolata, con pagine al limite tra il diario privato e l’aforisma carico di sapienza oggettiva, inconfutabile, tagliente.

Dove le parole hanno l’aura di una inerzia estrema, residuale e, insieme, quella d’un nuovo inizio. Dove tutto sembra proseguire, tendere verso una sorta di silenzio terminale e, miracolosamente, andare incontro alla possibilità di parlare ancora.

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