Catanzaro - Politica, sanità e ‘ndrangheta sono una cosa sola in Calabria. Un’entità mastodontica che si insinua anche nei territori più periferici dove c’è un ospedale, un ambulatorio, una struttura da controllare e da cui succhiare ogni risorsa. Tagliarle la testa non è facile. I dati della commissione tecnica per l’Attuazione del federalismo sono impietosi e parlano chiaro: le uscite regionali nel settore strategico dei servizi sanitari ammontano a 3.110,2 euro di spesa pro capite. Una cifra che fa schizzare la Calabria al secondo posto in classifica, dopo il Lazio. Praticamente, si spende il triplo del Veneto. A Locri, dopo l’omicidio di Francesco Fortugno (Pd), ci hanno provato sciogliendo l’azienda sanitaria per infiltrazioni mafiose. E lo stesso si è fatto all’Asp 5 di Reggio Calabria, 3.600 dipendenti ed un debito di oltre 500 milioni di euro. Qui, due anni fa, sono arrivati un ex generale dei carabinieri, il prefetto Massimo Cetola, ed altri due commissari a tentare di risanare «lo stato di abbandono dell’ente, lasciato a gruppi di potere interni alla propria dirigenza, con strutture amministrative caotiche e senza regole, con infiltrazioni criminali attraverso meccanismi manipolati dall’esterno con la compiacenza dei dirigenti». I commissari sono andati via lo scorso mese di marzo, sconfortati dalla strenua opposizione e dall’ostruzionismo nei confronti del loro operato di esponenti politici, personale interno, sindacati e persino della Regione. L’Asp 5 è nata dall’accorpamento delle aziende sanitarie di Reggio, Locri e Palmi. È quella in cui si è svolta parte dell’inchiesta «Onorata Sanità», che ha portato in carcere Domenico Crea, il potente medico-politico vicino ai boss della Locride, che beneficiò dell’uccisione di Francesco Fortugno subentrando al suo posto in Consiglio regionale. Crea mette in piedi quello che il gip di Reggio definisce «un vero e proprio sistema fatto di pressioni, relazioni, favori, attuato insieme al figlio Antonio, al fine di ottenere le autorizzazioni necessarie all’accreditamento della sua struttura», Villa Anya, residenza sanitaria per 60 anziani. Il sistema fa pressioni sui funzionari del dipartimento Sanità della Regione Calabria e dell’Asl 11 di Reggio Calabria, i quali arrivano persino a falsificare atti preparatori di delibere. A Crea basta alzare il telefono, ingiuriare e minacciare i dirigenti più onesti per ottenere tutte le autorizzazioni che vuole e farsi sottoscrivere contratti milionari per i ricoveri in regime di convenzione. Con lui sono finiti nei guai direttori generali, medici, direttori amministrativi e sanitari. Agghiaccianti sono i brani dell’ordinanza che riguardano i degenti, soprattutto quelli molto anziani, abbandonati o curati con prescrizioni fatte per telefono, lasciati morire per imperizia o negligenza o addirittura trasportati già morti al pronto soccorso dell’ospedale di Melito Porto Salvo perché in clinica non dovevano risultare decessi di alcun tipo. A Domenico Crea ed ai suoi amici boss interessavano solo i soldi. In una chiacchierata con il capostruttura della sua segreteria politica Crea elenca gli assessorati più remunerativi: «La Sanità è prima, l’Agricoltura e forestazione seconda, le Attività produttive terza; in ordine... in ordine di... dai, come budget... 7 miliardi... 7mila, seguimi, con la Sanità... (incomprensibile) 7mila miliardi (di lire, ndr)... 3 miliardi 360 milioni di euro hai ogni anno sopra il bilancio della Sanità... ora si sta facendo con il contributo 2006-2007 di entrare con la Sanità anche sui servizi sociali, cioè e ti prendi un’altra bella fetta di conti... (inc.) e ti prendi... (inc.) quindi pensa tu da 7mila arrivi a 8mila, 9mila... miliardi. Agricoltura e forestazione assieme ci sono 4.500 miliardi l’anno da gestire... Attività produttive eccetera, hai quasi scarso 4 miliardi». Mimmo Crea poteva contare su un bacino di oltre 13mila voti, mirava naturalmente a fare l’assessore alla Sanità, ma poi Francesco Fortugno lo scalzò e i suoi sogni finirono in frantumi. Per l’uccisione del vicepresidente del Consiglio regionale sono stati condannati in primo grado, tra gli altri, Giuseppe e Alessandro Marcianò, caposala nell’Ospedale di Locri dove Fortugno, prima di entrare in politica, faceva il primario. Marcianò era un infermiere, ma contava quanto un mammasantissima. Riverito e temuto dai dirigenti medici, dava ordini ai manager, i malati lo cercavano sempre per una «preghiera», un favore. Alle elezioni regionali aveva appoggiato Mimmo Crea e nella sua segreteria aveva sistemato il figlio Giuseppe, con un passato non proprio immacolato tra traffico di droga e armi. Ma, nell’ospedale di Locri, Marcianò non era il solo vicino alle cosche. La Commissione d’accesso insediata dopo l’omicidio Fortugno scovò tredici medici con precedenti o legami di parentela con la ’ndrangheta, ventinove infermieri, diciotto tecnici e ventitrè addetti alle pulizie. C’era pure la figlia di Giuseppe Morabito, detto «u tiradrittu», boss indiscusso della ‘ndrangheta calabrese; Giorgio Ruggia, vicino ai Cordì, condannato a tre anni e 8 mesi e all’interdizione dagli uffici pubblici e subito riammesso in servizio con una delibera del direttore generale.
E poi detenuti che hanno continuato a ricevere lo stipendio per oltre dieci anni e decine di laboratori e strutture accreditati, proprietà dei boss e dei loro prestanome, destinatari di risorse fino a tre volte superiori ai tetti di spesa. Un mostro con tante teste che, in Calabria, si cerca ancora di abbattere. (fine)marra69@alice.it
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