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MAO ZEDONG Creò una patria uccidendone i figli

MAO ZEDONG Creò una patria uccidendone i figli

Mao, la storia sconosciuta è una biografia scritta con passione da Jung Chang (e dal marito, lo storico inglese Jon Halliday), ex guardia rossa autrice del best seller Cigni selvatici. Il saggio sarà edito in Italia da Longanesi ed è stato pubblicato in Inghilterra dalla Jonathan Cape. La passione che anima l’autrice è l’odio: l’odio per un tiranno che ha sconvolto la sua vita e la sua patria, facendo 60 milioni di morti: vittime dei massacri durante e dopo la guerra civile, della carestia provocata dal «Grande balzo in avanti» e infine dalla Rivoluzione culturale. Un primato rispetto anche a Hitler e Stalin.
L’odio è talvolta cattivo consigliere: qua e là nel libro s’intravedono forzature nella descrizione delle gesta di Mao. Si tende a rappresentarlo ancor più spregevole e inetto di quanto non fosse, raccontando delle sue vigliaccherie o errori in battaglia, delle sue lussuose ville. Comunque è impressionante la quantità della documentazione, spesso inedita, raccolta. Sarà talvolta faziosa, ma la descrizione di come il giovane studente figlio di contadini mediamente ricchi sale dall’isolato villaggio di Shaoshan, nell’Hunan, fino a imperatore rosso della Cina, è suffragata da centinaia di carte e testimonianze.
Brillanti le annotazioni su come la cultura confuciana permise a un giovane della lontana provincia di farsi una cultura internazionale e su come questa chance Mao l’avrebbe poi negata ai contadini che vivranno sotto il suo regime: ben più legati alla terra e disinformati di quanto non fossero i loro progenitori anche nella fase di maggiore decadenza del Paese. Acuta l’osservazione sulla formazione del partito comunista composto da professori e studenti: gli operai e i contadini arriveranno solo dopo. Incontrovertibile la dimostrazione di come Mao entri nel partito solo in un secondo tempo. Nel congresso di fondazione la relazione venne tenuta da un esponente del Comintern, l’olandese Maring (vero nome: Hendrik Sneevliet), con un discorso in inglese tradotto per i delegati. Mao si vantò di essere uno dei «fondatori». Non era vero.
Alla fine degli anni Venti, la lotta politica in Cina diventa scontro militare. E le organizzazioni comuniste (molti dei quadri del Pcc sono stati formati a Mosca anche grazie ad accordi tra i nazionalisti del Kuomintang e il potere sovietico) si distinguono a malapena dai gruppi di banditi e dagli eserciti dei signori della guerra.
Mao non è un genio militare, secondo la Chang è solo capace di valutare i punti di rottura tra alleati, subalterni e avversari e, agendo sulle contraddizioni, di comandare. Ma se Mao non è uno stratega, tutti quelli che lo circondano sono capi militari, compreso Chou En Lai che ha studiato a Mosca l’arte bellica. La preparazione militare distingue i comunisti cinesi da quelli russi i quali, arrivati al potere grazie all’esplosione dell’esercito zarista, organizzano poi un potere sostanzialmente civile, anche se basato sui servizi segreti. Il potere sovietico tiene in riga l’Armata rossa: i capi militari, da Lev Trotskij a Mikhail Tukacevskij vengono eliminati. Invece gli uomini che guidarono l’esercito protagonista della «Lunga marcia» rimangono fino alla fine ai vertici del potere e in varie occasioni anche dopo il ’49 (negli anni Sessanta, dopo le tragedie prodotte dal «Grande balzo in avanti» e nei Settanta dopo la «Rivoluzione culturale») mettono in minoranza Mao. Anche oggi per capire la nuova Cina l’attenzione al ruolo dell’esercito popolare è fondamentale.
Nelle recensioni a questa biografia sono tanti i richiami alla mostruosità del protagonista. Senza dubbio l’autrice aveva questo scopo: presentare il tiranno rosso come un essere di crudeltà infinita. Alcuni tratti del suo comportamento, per esempio l’uso di lance artigianali nelle torture dei nemici, lo accomunano a un satrapo orientale. L’indifferenza nel far sopportare miserie al suo popolo, in modo anche più brutale di quanto riuscì a uno specialista in materia come Stalin, fa pensare più ai faraoni d’Egitto che a uomini di potere moderni.
L’uso del terrore, della persecuzione degli stessi compagni di lotta, persino i cortei di dileggio degli avversari, ricordano però rivoluzioni ben vicine a noi: da quella francese alla più sanguinaria rivoluzione russa. È illuminante in tutto il libro il legame di ferro con l’Unione Sovietica: con annessa guerra nel partito cinese per controllare i rapporti con Mosca. Nella biografia si sottolineano gli elementi materiali di questo rapporto (soldi e intelligence che il Comintern faceva arrivare ai rivoluzionari cinesi). Ma fondamentale era anche la legittimità che Mosca conferiva ai capi del comunismo cinese. La lotta nel partito per chi aveva rapporti diretti con Stalin non era nella sostanza molto diversa (se non per alcune crudeltà tipicamente maoiste) da quella che avveniva in tutti i partiti del Comintern. Quando, negli anni Sessanta, Mao rompe con il Cremlino, per legittimarsi, deve subito costruirsi un Comintern da operetta. E quando fallisce, questa sconfitta la paga anche nel partito, dove emerge un Deng Xiao Ping che per dare solidità alla nuova politica cinese dovrà aprire agli Stati Uniti.
Resta l’interrogativo con cui l’autrice apre il libro: perché un mostro come Mao, che tanto male ha fatto alla Cina, è ancora il «Padre della patria»? Perché ha fatto la riforma agraria, risponde in una recensione al libro della Chang, Nicholas Kristof del New York Times.

Perché ha ridato un orgoglio nazionale all’ex impero celeste, sostengono altri informati osservatori.

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