Marchionne come Bossi: rivoluziona la prima Repubblica delle imprese

Mar­chionne ha drammatica­mente sv­elato come i bilan­ci si debbano fare in fabbri­ca o in bottega e non a Pa­lazzo Chigi

Marchionne co­me Bossi. Sì, il numero uno del­la Fiat come il leader della Lega. Con vent’anni di ritardo l’impre­sa i­taliana ha trovato un in­novatore del linguaggio e della pratica politica, che smonta pezzo per pezzo il sistema consolidato di rap­porti e di convenienze. La Fiat ha influenzato le sorti della politica, ha guidato la Confindustria, ha dettato la sua linea direttamente e indirettamente attraverso i media che controlla. Mar­chionne si è trovato al Lin­gotto, come un marziano a Roma. E ha capito subito che l’unica faccenda che non riusciva a governare era il suo conto economi­co. Ma come la fine della prima Repubblica era tan­to evidente nella testa di Bossi, così la morte del con­sociativismo economico è stata lampante per Mar­chionne. Basta riti. Basta con quella cravatta adatta per le riunioni a Roma ma molto meno per i meeting informali con i propri ma­nager. Marchionne ha sbi­lanciato più che ha potuto il baricentro dei suoi affari all’estero e così è stato in grado di giocare la sua car­ta finale: adesso si fa a mo­do mio.

È evidente come questo atteggiamento, come il pri­mo leghismo, sia difficil­mente comprensibile dai palazzi che contano. Le bu­rocrazie politiche e sinda­cali sono cresciute come i partiti della prima Repub­blica, con una classe diri­gente che si è formata su te­sti sacri (lo statuto dei lavo­ratori come la Costituzio­ne), commerci e abiti men­tali dell’altro secolo. Mar­chionne si può permettere di dire ai sindacati: col cavo­lo che vi do i dettagli del mio piano industriale. Può dire alla Confindustria: mi faccio il mio contratto e me ne esco dal costoso palaz­zone di viale dell’Astrono­mia. Può dire ai politici: non vi impicciate, lo stabili­mento siciliano lo chiudo. Il marchionismo (neologi­smo già definito una malat­tia dall’ Unità ) come il pri­mo leghismo si procura im­mediatamente una rispo­sta conservatrice. È una rea­zione naturale dell’esta­blishment che cerca com­prensibilmente di salvarsi.

Il governo e una parte del­l’opposizione (Piero Fassi­no tra gli altri) hanno asse­condato e in una certa mi­sura compreso il processo. I sindacati hanno fatto al­trettanto (con l’eccezione residuale, ma significativa, della Fiom). La prima vitti­ma è la confederazione del­le imprese. E in questo il presidente Emma Marce­gaglia c’entra poco. È la Confindustria come gran­de struttura burocratica (600 milioni solo di contri­buti dagli associati) a teme­re di far la fine della Demo­­crazia cristiana. Il marchio­nismo ha scombinato il triangolo politica-sindaca­ti- Confindustria. Ma men­tre i primi due attori conti­nuan­o ad avere un loro ruo­lo nella rappresentanza de­gli interessi, l’associazione datoriale rischia di perder­si nella difesa di un mondo imprenditoriale che non c’è più.

Non siamo più alla guerra dei piccoli contro i grandi dell’epoca D’Ama­to ed è in via di soluzione anche la contrapposizione tra pubblico e privato. Mar­chionne ha drammatica­mente sv­elato come i bilan­ci si debbano fare in fabbri­ca o in bottega e non a Pa­lazzo Chigi. Ben arrivato.

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